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Sara Gandolfi per il “Corriere della Sera”
«Non è come nasci ma come muori che rivela a quale popolo appartieni». Black Elk, alias Alce Nero, venne al mondo nella tribù degli Oglala Sioux in una terra che oggi si chiama Wyoming, «intorno» al 1863. Era figlio di uno sciamano e cugino di Cavallo Pazzo, a dodici anni combatté nella trionfale (per gli indigeni) battaglia di Little Bighorn contro i cinque squadroni del Settimo cavalleria del generale Custer, che furono sterminati quasi fino all' ultimo uomo. Da adulto fu testimone del massacro dei Sioux a Wounded Knee («con loro morì un' altra cosa, nella neve insanguinata Lassù morì il sogno di un popolo», scrisse poi). Ma quello che fa la differenza, oggi, è che Henáka Sápa (il suo nome lakota, che in realtà significa Cervo Nero) è morto cattolico.
La sua conversione, nel 1904, seppur venata di sincretismo, offre alla Chiesa di Francesco un' opportunità inestimabile per fare pace, finalmente, con i popoli indigeni del Nord America: nella loro ultima conferenza a Baltimora, i vescovi statunitensi hanno infatti approvato l' avvio del processo di canonizzazione del capo Sioux che predicò il verbo della Bibbia nelle riserve, battezzò 400 aborigeni e creò sermoni brillanti. Fino alla morte, nella riserva di Pine Ridge, in South Dakota, ultraottuagenario e fiero del suo nome cristiano: Nicholas. Così lo avevano battezzato i gesuiti del Santo Rosario.
L' Enciclopedia delle Grandi pianure, pubblicata dall' Università del Nebraska, lo definisce «probabilmente il più influente leader nativo-americano del XX secolo». A differenza di Nuvola Rossa, Cavallo Pazzo e Toro Seduto, ha ricordato la rivista New Yorker , «Alce Nero conquistò la fama non per le sue azioni in guerra ma per una visione: durante una malattia, quando aveva nove anni, vide qualcosa che può essere interpretato come la totalità della creazione della Terra».
Fu un poeta, John Neihardt, a raccontare nel 1930 quella visione, e molto altro, nel libro Alce Nero parla (pubblicato in Italia da Adelphi), un «must» per chiunque voglia avvicinarsi alla spiritualità delle Prime nazioni. Da allora l'«uomo di medicina» lakota è diventata un' icona del movimento indigeno. Un predicatore, che aveva imparato a conoscere bene l'«uomo bianco» girando in Europa con il Wild West Show di Buffalo Bill ma anche una «voce alternativa» al neo-colonialismo. Pochi sapevano che lo sciamano era pure un fervente cattolico.
Nella parrocchia di Pine Ridge è da tempo venerato come un santo. Ricordano le sofferenze che ha subito in vita - la morte della prima moglie e di cinque figli - e la sua fede incrollabile. «Da quando Wakan Tanka (Dio, in lakota) ha illuminato il mio cuore, esso è nella luce eterna», scrisse in una lettera nel 1948. Lo scorso autunno, i nipoti di Alce Nero hanno presentato al vescovo di Rapid City, Robert Gruss, una petizione con oltre 1.600 firme in cui chiedevano di candidare il loro antenato alla canonizzazione. Richiesta accettata.
Significa molto per gli indigeni del Nord America - c' è un solo precedente: la patrona mohawk del Canada Kateri Tekakwitha, canonizzata da Benedetto XVI nel 2012 - ma è un passo fondamentale anche per il Vaticano, che ancora non ha ottenuto il pieno perdono dai popoli nativi per le politiche di scolarizzazione forzata che hanno quasi annientato la cultura pellerossa.
Gran parte dei missionari nel Far West era mossa da buone intenzioni, ma è pur vero che la Chiesa cattolica, in Usa e Canada (come in Australia, Nuova Zelanda e America latina), partecipò attivamente ai programmi di persecuzione culturale. I bambini venivano separati dalle famiglie, costretti a vivere nelle «boarding schools» dove era severamente vietata la lingua d' origine. «Vi chiedo umilmente perdono per i crimini commessi contro i popoli indigeni durante la cosiddetta conquista dell' America», disse il Papa nel suo storico discorso in Bolivia, due anni fa.
Forse il perdono porta il nome di Alce Nero.
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