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Michele Farina per www.corriere.it
«Wife beater». La maglietta di chi «picchia la moglie» e degli immigrati italiani. Nel turbine di #MeToo finisce pure la canottiera proletaria di Marlon Brando con il suo nome politicamente scorretto e il suo innegabile fascino.
Weinstein e «i poveri ma brutali»
Nel giorno in cui a New York sfila in manette e golfino azzurro sotto la giacca lo sbarbato Harvey Weinstein, ex padrone di Hollywood e potente molestatore seriale campione dell’upper class, il New York Times pubblica un articolo che fa nominalmente a pezzi il simbolo di un certo machismo (non solo) cinematografico della serie «poveri ma belli» (e brutali).
Il mistero della A-Shirt
L’immagine iconica è quella di Marlon Brando in «Un tram che si chiama desiderio» del 1951. Nei panni del primordiale e sensuale Stanley Kowalski, protagonista del dramma di Tennessee Williams, il ventisettenne Marlon sfoggia una canottiera bianca mezza strappata, corrispettivo «sporco»» della candida T-shirt alla James Dean. In America quella maglietta «da lavoro» ha (avrebbe) un nome anonimo e neutrale: A-shirt. Ma nel linguaggio di tutti i giorni viene indicata con un’espressione che oggi suona più che mai stonata e inaccettabile (anche) alle orecchie del commentatore del Times, Moises Velasquez-Manoff.
Lo stupro della cognata
«Wife beater», la maglia dell’uomo violento. Nella storia di «A Streetcar Named Desire», ambientata nel profondo Sud, Kowalski picchia effettivamente la moglie e stupra la cognata. L’epiteto di «wife beater» è cucito addosso al personaggio e alla sua canottiera. Ma non è «coevo» al film. L’origine del nome, o per lo meno la sua diffusione nello slang americano, è di molto successiva.
Il dilemma del nome
«Wife beater» non è un retaggio lessicale del passato, ma un prodotto relativamente recente dell’America studentesca degli anni Novanta. Post-sessantottina e pre-MeToo. L’America di Bill Clinton e del Sexgate. L’etimologia non è chiara. Molti citano Brando-Kowalski e la sua A-Shirt come modello del «marito picchiatore». Un’altra possibile spiegazione (senza prove) che circola in Rete ci porta nella Detroit nel 1947, al caso di un uomo che uccise a botte la moglie e che indossava la suddetta canotta. In ogni caso, rimane il dilemma: perché fatti e immagini che risalgono alla metà del Novecento sono entrati nel vocabolario giovanile soltanto verso la fine del secolo?
La prima volta
Connie Eble, una linguista intervistata dal Times, ha rintracciato il primo abbinamento nome-maglietta nell’anno 1996, quando uno studente utilizzò per la prima volta il marchio «wife beater» per indicare quel particolare capo di abbigliamento. Il neologismo (in alcuni casi semplificato in «beater») esce dalle segnalazioni dello slang studentesco (curate dalla University of North Carolina) nel 2007. E non perché cada in disuso. Al contrario. E’ diventato così comune che non è più una novità da segnalare.
La maglia degli italiani
La verità dei nomi segue percorsi tortuosi, strappi prodotti nel tessuto sociale come nel tessuto della canotta di Brando. Dominique Padurano, che insegna storia al Bronx Community College, fa riferimento a un altro termine con cui alla metà del Novecento veniva indicata la «maglietta A». La chiamavano «Dago Tee». Dago era un termine razzista molto offensivo (dallo spagnolo Diego) usato per gli immigrati italiani e ispanici, che spesso venivano impiegati nei lavori manuali. La «Dago-Tee» era dunque la tipica canottiera dei muratori italiani nei cantieri sotto il sole, quando i nostri connazionali non venivano considerati del tutto «bianchi». Secondo Padurano, quando l’epiteto razzista divenne via via più inaccettabile, finì per «nascondersi» in un’espressione sulla carta più neutra, senza diretti riferimenti «etnici» agli italiani. E così avrebbe preso piede il nome-schermo di «wife beater». Come se gli italiani fossero i campioni degli abusi sulle donne.
Tre pregiudizi
Il Times nota un doppio strato semantico che impone un cambio del nome alla canotta di Marlon. L’elemento sessista, naturalmente, ma anche quello classista, che sottende il pregiudizio secondo cui gli uomini delle fasce più basse della popolazione siano i primi indiziati per le violenze di genere. Ce ne fosse stato bisogno, il caso Weinstein ha dimostrato che anche i completi firmati dei potenti possono nascondere il più incallito dei «wife beater».
Ai due strati suddetti aggiungiamo il terzo, che ci sta a cuore, quello razzista rivolto agli immigrati italiani che hanno contribuito a costruire l’America. Orgogliosamente. In Dago-Tee. In canottiera.
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