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Cristina Bassi e Luca Fazzo per “il Giornale”
A mandarlo fuori di testa, racconta, è il silenzio. «Se ci fosse almeno il rumore di uno sciacquone mi farebbe compagnia», ha detto una volta al suo difensore. Invece Michele Zagaria, il boss del clan dei Casalesi, catturato otto anni fa dopo una interminabile latitanza, è stato sepolto vivo nel reparto più duro del carcere di Opera: l'AR, la cosiddetta «area riservata», non prevista dalle leggi ma applicata di fatto ai detenuti così pericolosi che neanche il famoso 41 bis, il reparto ad alta sicurezza, è sufficiente a neutralizzarli.
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E nell'AR di Opera «don Michele» si è reso responsabile di una serie di minacce e di violenze che lo hanno fatto finire di nuovo sotto processo, assistito dall'avvocato di fiducia Paolo Di Furia: concretamente irrilevante, perché Zagaria è già gravato da numerosi ergastoli. Ma la vicenda ha causato il suo trasferimento d'urgenza al remoto carcere di Tolmezzo. Ed è da lì, in videocollegamento, che è apparso nei giorni scorsi in tribunale, nell'udienza a suo carico per le sue imprese ad Opera: devastazioni di celle e telecamere, minacce alle guardie e al direttore dell'epoca Giacinto Siciliano.
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Il tutto appesantito dall'aggravante mafiosa che il pm Stefano Ammendola ha deciso di applicare, ritenendo che Zagaria, nonostante l'isolamento ferreo, continui a farsi forza di prestigio e alleanze. La nuova inchiesta contro il boss camorrista è stata tenuta segreta dai vertici dell'amministrazione penitenziaria, ed è venuta alla luce solo ora che il processo è approdato nell'aula della Sesta sezione penale del tribunale. Lì, nel suo collegamento video, Zagaria - apparso segnato e provato - ha spiegato i motivi della sua perdita di controllo: il gangster dice di essere stressato dalle continue visite di investigatori che gli chiedono di pentirsi.
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«Ormai ne saranno venuti un centinaio», ha detto. Di cose da dire ne avrebbe molte: a partire dal contenuto della famosa pen drive a forma di cuore che aveva con sé al momento dell'arresto, e che è svanita nel nulla con tutti i suoi segreti. «Ma io - dice Zagaria - non ho alcuna intenzione di pentirmi». A Michele Zagaria vengono contestati ben undici reati, commessi tra il 5 e il 19 maggio 2018. Tutto, in realtà, inizia con una sorta di tentativo di suicidio: la mattina del 5 maggio l'agente del Gom (i reparti speciali della polizia penitenziaria) di servizio all'AR rossa vede Zagaria con un sacchetto di plastica in testa.
Ma quando arrivano i rinforzi, Zagaria si toglie il sacchetto e si scatena, prendendo un manico di scopa e iniziando a menare fendenti contro le telecamere di sorveglianza che lo controllano 24 ore su 24. Cinque giorni dopo, il detenuto ricomincia ad agitarsi, sbattendo il «blindo», lo spioncino della sua cella; quando le guardie bloccano il blindo, «il detenuto Zagaria non domo ha continuato a creare disordine sbattendo la porta di ferro del bagno, provocando un rumore assordate e mettendo a rischio la sicurezza della sezione».
Poi il boss attacca una telecamera e la lancia in corridoio, e spacca l'altra. L'episodio più grave è di pochi giorni dopo, quando rientrando in cella Zagaria prende di petto l'agente che gli aveva fatto rapporto per i fatti precedenti, gli dà due schiaffoni su un orecchio, e quando in qualche modo lo immobilizzano continua a gridare «sei un pezzo di merda, sei un pezzo di merda». Minacce che durante un colloquio con i medici manda anche al direttore Siciliano: «Il direttore io lo paragono a una busta di immondizia e io l'immondizia la butto fuori». Tra le aggravanti contestate a Zagaria, avere oltraggiato gli agenti «in un luogo aperto al pubblico quale è considerato il carcere».
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