lidia macchi - binda

LA SVOLTA NELLE INDAGINI SULL’OMICIDIO DI LIDIA MACCHI, DEL 5 GENNAIO 1987, E’ ARRIVATA GRAZIE AI RICORDI DI UNA SIGNORA CHE IN TV STAVA VEDENDO UNA TRASMISSIONE SUL CASO - LA DONNA HA VISTO IL FOGLIETTO CON LA POESIA “IN MORTE DI UN’AMICA” ARRIVATO 5 GIORNI DOPO L’OMICIDIO AI GENITORI DELLA VITTIMA E HA RICONOSCIUTO LA CALLIGRAFIA DI STEFANO BINDA

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1 - DELITTO MACCHI, UN ARRESTO DOPO 29 ANNI LA LETTERA INCASTRA IL COMPAGNO DI LICEO

Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera”

 

Lo stesso odio viscerale per le donne lega due feroci omicidi, ma è la rabbia delle figlie vilipese da un assassino condannato due anni fa a contribuire a riaprire le indagini su un delitto lontano portando in carcere dopo 29 anni un uomo accusato di aver violentato e ucciso una ragazza la notte del 5 gennaio 1987 vicino a Varese.

LIDIA MACCHILIDIA MACCHI

 

Quando nel 2014 Giuseppe Piccolomo viene condannato per l'uccisione di Carla Molinari, un' anziana alla quale aveva anche mozzato le mani, le sue figlie si confidano con il sostituto Procuratore generale di Milano Carmen Manfredda.

 

Dicono che il padre, che accusano di aver assassinato anche la loro madre e che le ha vessate per tutta la vita, per intimorirle di più diceva che nel 1987 aveva ucciso Lidia Macchi, una studentessa ventenne violentata e pugnalata 29 volte nei pressi di Cittiglio, a 22 chilometri da Varese. Escluso che Piccolomo abbia a che fare con la morte della ragazza, le indagini riaperte da Manfredda svoltano quando una donna si presenta alla Polizia. Patrizia Bianchi conosceva Lidia Macchi e ha visto in tv una trasmissione sulla sua fine e su un quotidiano il componimento farneticante «In morte di un' amica» arrivato il 10 gennaio del 1987 ai genitori della vittima.

 

STEFANO BINDA - LA CANZONE PER LIDIA MACCHISTEFANO BINDA - LA CANZONE PER LIDIA MACCHI

Una macabra poesia che poteva essere stata scritta solo dall' assassino, dato che riportava particolari inediti come la descrizione minuziosa del «rapporto sessuale e il conseguente sacrificio ineluttabile» con «la soppressione violenta della giovane che si arrende, mite, a un destino inesorabile», scrive il gip Anna Giorgetti. La donna riconosce la grafia del suo amico Stefano Binda e consegna alcune cartoline che lui le aveva spedito negli anni '80. Una perizia accerta che a scrivere poesia e cartoline è stata la stessa mano.

 

Il pm Manfredda rilegge i vecchi atti e nota che dopo la morte della giovane Binda era stato interrogato con altri amici che come lui e Lidia facevano parte dello stesso gruppo legato al movimento cattolico Comunione e liberazione. Il giovane aveva dato un alibi che, però, non era stato verificato: aveva detto di non vedere la compagna di liceo da tre anni e che fino al 6 gennaio '87 era in montagna con amici.

 

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Convocati dal pm, ora questi lo smentiscono mentre lui, interrogato di nuovo, nega di aver scritto la poesia e di aver visto la ragazza prima della morte. Si delinea un quadro nuovo, anche se non è più possibile fare il test decisivo del Dna perché i reperti biologici prelevati nel 1987 sono stati inspiegabilmente distrutti nel 2000. Il pomeriggio del 5 gennaio 1987 Lidia Macchi è a casa.

 

«Non era particolarmente allegra come al solito», scrive il gip di Brescia, quando Lidia dice ai familiari che esce per andare a trovare un' amica nell'ospedale di Cittiglio. Ragazza solare e allegra, curata nell' aspetto, aveva talmente fretta da non truccarsi, da non mettere le lenti a contatto e non legare i capelli con quel fiocco nuovo che le era stato appena regalato. Un teste vede la sua Panda che entra nel parcheggio dell' ospedale e va via al passaggio di una Fiat 131 bianca, simile a quella di Binda. È il giovane a salire sull' utilitaria che si ferma su una strada di campagna frequentata da tossicodipendenti, Stefano la conosce bene perché anche lui da un po' si buca.

 

 

È una notte fredda e stellata, la stessa che declamerà il lugubre poeta. Lidia si fida, attratta dalla fragilità di quel colto ragazzo religiosissimo e un po' ombroso che voleva aiutare a uscire dal tunnel della droga. Forse i due si scambiano qualche effusione prima che la situazione precipiti . Lui la aggredisce, le cala i pantaloni, la costringe a un rapporto sessuale, il primo della vita.

 

Stefano «perde la testa, estrae un coltello», ricostruisce il giudice, e la colpisce al torace e al collo mentre lei tenta di difendersi, di uscire dalla Panda diventata una trappola. Stefano Binda la insegue, la getta a terra e la colpisce 16 volte alla schiena con fendenti che però non la uccidono. La morte arriverà lenta per dissanguamento nelle ore successive. «Il sacrificio è compiuto», scrive il giudice, «non è stato amore ma mera meccanica congiunzione carnale alla quale ogni tipo di carezza è stata estranea.

 

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Non è così che doveva andare, non era certo così che Lidia doveva aver immaginato la sua prima volta, ma forse anche Stefano, preda delle sue ossessioni religiose, vive il "dopo" con rabbia e con la sensazione di aver distrutto tutto, soprattutto se stesso».

 

Binda covava un «intento distruttivo della donna», di quella donna che considerava la causa di un rapporto sessuale che lo aveva costretto a un «tradimento del proprio ossessivo e delirante credo religioso» da «purificarsi con la morte». Una punizione riservata a lei, non certo a lui stesso.

 

Per 29 anni Binda nasconde il segreto. Quando la Polizia perquisisce la casa dove vive con la madre trova le agende degli anni '80 conservate con cura maniacale. Quattro sono dell' 87, in una mancano solo le pagine dal 4 al 7 gennaio. In un' altra c'è un foglio in cui ha scritto «Stefano è un barbaro assassino». Nella borsa Lidia custodiva la poesia «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi» di Cesare Pavese. Era il «cavallo di battaglia» di Stefano.

 

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2 - QUELLA VITA DA FANTASMA TRA EROINA E SACRE SCRITTURE DELL' EX PRIMO DELLA CLASSE

Andrea Galli per il “Corriere della Sera”

 

Con le tapparelle abbassate anche nelle mattine d' estate, la villetta sembrava disabitata ancor prima delle perquisizioni degli ultimi mesi e dell' arresto di ieri. Quasi che mamma Maria, vedova da giovane del marito artigiano dei camini, più che per la vergogna del divorzio della figlia Patrizia, tornata ad abitare da lei al piano terra, volesse proteggere la famiglia dalle malelingue per l' altro figlio, chiuso nell' appartamento al primo piano.

 

L' adorato Stefano per cui immaginava un futuro (bravo chierichetto alle elementari) da sacerdote come l' amico fraterno don Giuseppe Sotgiu, l' unico che gli ha coperto l' alibi per i giorni dell' assassinio, oppure (primo della classe alle superiori) un futuro da professore universitario e che invece, arrivato a 48 anni senza un' ora di lavoro, continuava a drogarsi. Eroina.

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Le siringhe gli avevano provocato un' infezione che gli aveva mangiato il braccio destro, rimasto ritratto. I boschi di Sass Pinin, dove Lidia fu uccisa, erano il covo dei tossici.

Via Cadorna è stretta e termina in una corte ristrutturata con un ampio cortile che ospita gli aperitivi e le serate di chiacchiere dei pochi residenti, orgogliosi di «questa piccola comunità» ma che, dietro un muro, al riparo dagli altri, si dicono contenti che finalmente abbiano portato via quell' uomo. Del resto «non aveva voglia di fare un c...

 

»; campava «sulla pensione della madre e della sorella sgobbona»; bighellonava come «l' altro lì», il trentenne Jonathan, il figlio di Patrizia, che «passa il tempo a guardare lo sport su Sky». Naturalmente qui, «da decenni», girava voce insistente che l' avesse uccisa lui, però lui non compariva tra i «colpevoli» indicati dalle decine di lettere anonime di calunnia per ventinove anni circolate in provincia di Varese; e naturalmente nessuno aveva prove e s' era preso il rischio di condividere le «informazioni» con gli investigatori.

 

STEFANO BINDA  STEFANO BINDA

Via Cadorna in passato era chiamata la «brughera», distesa di terra incolta utile per allevare i bachi da seta. Binda non ha legato con nessuno dei vicini. Usciva per andare in due bar a comprare le amate sigarette e farsi il cicchetto: il «Relax bar» e l'«Albergo»; si muoveva la domenica per la messa nella chiesa priva di parroco fisso, a causa della crisi delle vocazioni; e quando capitava partecipava agli incontri dell' associazione culturale «Magre sponde» il cui presidente difende Stefano, «uomo buono e mite», lontanissimo dalle cattiverie di Brebbia, tremila abitanti tra i laghi di Varese e quello Maggiore, e soprattutto lontanissimo dal ritratto dell' ordinanza di custodia cautelare.

 

Quand' era giovane, forte dell' aria da «intellettuale dannato» come scritto dal giudice, piaceva alle ragazze. E se mai già allora veniva escluso, o comunque non accolto totalmente nel gruppo di Comunione e liberazione, era in conseguenza della sua «arroganza», convinto d' essere sprecato, con le conoscenze di storia, filosofia e cinema, in questa provincia allevata per faticare in fabbrica. Manca una prova «definitiva», nell' impianto accusatorio, ad esempio la prova del Dna. Però, sì, hanno confermato più testimoni, Binda ha mentito perché quel gennaio non partecipò a una vacanza in montagna.

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Però sì, hanno appurato gli esperti, scrisse la missiva indirizzata ai genitori di Lidia il giorno dei funerali. Però, sì, hanno certificato gli psichiatri, nel testo era raccontato l' omicidio, e forse solo uno come Stefano, studioso omnivoro ed esperto di Sacre scritture, avrebbe potuto fare quei rimandi, la morte violenta («Lo strazio delle carni»), la verginità violata («Il velo strappato»), le pulsioni e il peccato originale («Lo scotto dell' antichissimo errore»), e la violenza brutale divenuta «atto liberatorio, un tentativo di coprire i rimorsi e un bisogno simbolico di sepoltura per rimuovere le proprie personalità... il delitto di una personalità paranoide, altamente narcisista, divisa tra regole e pulsioni».

 

Delirio, follia, orrore: dov' è dunque l'«uomo buono e mite»? Se Stefano Binda ha stuprato e ha ucciso e per una vita l' ha nascosto, nell' isolamento del primo piano, gelosissimo custode di una fotografia di Lidia e dei vecchi diari riempiti con la foga degli adolescenti, era convinto che tanto l' avrebbero scoperto oppure che si sarebbe salvato. Poteva scappare e non l' ha fatto. Se si assentava, era per disintossicarsi in comunità e per andare a trovare conoscenti del vecchio giro di Comunione e liberazione, e sacerdoti che forse hanno condiviso i suoi segreti.