DAGOREPORT – LO “SCAMBIO” SALA-ABEDINI VA INCASTONATO NEL CAMBIAMENTO DELLE FORZE IN CAMPO NEL…
1. LA MORTE A FERGUSON, LA VITA PER LE TV ALL NEWS. E ALTRO
Andrea Salvadore per www.americanatvblog.com
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I fatti di Ferguson resuscitano le tv all news agonizzanti. Lunedi sera le quattro tv all news che di solito mettono insieme un milione scarso di telespettatori sono balzate complessivamente a oltre 16 milioni, uno in piu’ dello show numero uno sulle generaliste, Dancing with the stars ( Ballando con le stelle ). E da allora le all news, camere fisse su Ferguson, macinano grandi ascolti. Drogando anche l’informazione , come quando l’inviato fa il suo stand up per ore davanti all’unica macchina che brucia. Cosi’ le corrispondenze da Ferguson sembrano venire da Gaza nel suo giorno peggiore.
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Proteste, arresti ma non esattamente “America in fiamme” come leggete e ascoltate anche dalle corrispondenze italiane. Situazione delicatissima ma per ora non precipitata.
Questo sarebbe un buon momento per l’informazione. Leggo che in Italia il problema sarebbe “l’esercizio abusivo della professione”. Mamma mia.
Ma la trave nell’occhio di chi fa tv e scrive con la tessera della corporazione, quella mai ?
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2. FERGUSON, 400 ARRESTI NEGLI USA. APPELLO DEI VIP A BOICOTTARE IL BLACK FRIDAY
Piu' di 400 persone sono state arrestate a Ferguson e in tutti gli Stati Uniti in seguito alle proteste per la decisione del grand jury di non incriminare il poliziotto che ha ucciso Michael Brown. Manifestazioni si sono avute in tutte le grandi citta' degli Stati Uniti, da Boston a Dallas, da New York ad Atlanta.
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Continuano su Twitter gli appelli delle star a boicottare il 'Black Friday' (la giornata dei grandi sconti che apre la stagione natalizia) in segno di protesta, con gli hashtag #BlackoutBlackFriday, #notonedime (neanche un centesimo) e #boycottBlackfriday.
3. NEW YORK COME FERGUSON: “BASTA UCCIDERE I NOSTRI RAGAZZI” -
IN STRADA AFROAMERICANI E ATTIVISTI DI OCCUPY: È L’AMERICA PIÙ INGIUSTA DI SEMPRE
Paolo Mastrolilli per “la Stampa”
Il rumore degli elicotteri è il primo segno che sta accadendo qualcosa di strano. Cosa ci fanno, alle sette di sera, sopra gli edifici di Midtown? A quest’ora la gente dovrebbe già essere in metropolitana, avviata verso casa, mentre il traffico della rush hour sulla Seconda Avenue scema. Invece si sentono volteggiare gli elicotteri, che pattugliano il Palazzo di Vetro dell’Onu, la stazione di Grand Central, e soprattutto il tunnel che collega Manhattan al Queens.
«Hands up, don’t shoot», si sente gridare all’improvviso dalla strada. È Ferguson che diventa una protesta nazionale. In alcuni casi decine, in altri centinaia di persone, che sono scese in piazza per solidarietà con i manifestanti del Missouri.
darren wilson dopo lo scontro con michael brown
La scintilla si è accesa in tutti gli Stati Uniti, almeno 170 città arrabbiate, e New York non poteva mancare. Perché ormai non si protesta più solo contro la violenza della polizia contro i neri, che di per sé potrebbe anche bastare, ma contro tutte le ingiustizie e le diseguaglianze della società moderna americana. Per qualche istante, l’impressione è quella di essere tornati ai tempi di «Occupy Wall Street». Stessa gente, cioè giovani millennial assai colorati, con l’aggiunta di più neri. E stessi slogan, anche se stavolta gli insulti contro gli agenti presunti razzisti arrivano prima delle urla per la redistribuzione del reddito.
Martedì notte le proteste sono continuate anche a Ferguson, naturalmente. Oltre quaranta arresti e un’auto della polizia incendiata, mentre due agenti dell’Fbi sono rimasti feriti intervenendo in una casa dove qualcuno si era barricato dentro. Niente a che vedere con l’uccisione di Michael Brown, però. Tutto sommato una nottata tranquilla, rispetto alla guerriglia del giorno prima. La gente, soprattutto la comunità locale che a Ferguson dovrà continuare a vivere, sta ascoltando l’invito dei famigliari di Mike a manifestare in maniera pacifica, e le minacce del governatore del Missouri Nixon, che ha mobilitato oltre duemila soldati della Guardia Nazionale per riportare la calma.
L’agente Darren Wilson ha quasi provocato, dicendo in una intervista con George Stephanopoulos della Abc che «ho la coscienza apposto, ho fatto il mio dovere. Se Brown fosse stato un bianco, mi sarei comportato nella stessa maniera». La piazza, però, ha risposto dandosi una calmata, perché anche ai tempi di Martin Luther King le marce pacifiche avevano molto più effetto delle violenze delle Black Panthers. Lo hanno ripetuto i genitori di Mike, parlando ieri con le televisioni americane: «La storia raccontata da Wilson - ha detto la madre - è falsa. Mio figlio non ha cercato di strappargli la pistola, non esiste. Dobbiamo dirlo, senza violenza». Ovvia difesa di una mamma addolorata.
La sorpresa, però, è quello che accade nel resto dell’America, che rispetta poi la migliore tradizione di questo Paese sempre in movimento. Una dopo l’altra, tutte le città hanno visto gente scendere in piazza. In alcuni casi, manifestazioni organizzate; in altri, proteste a gatto selvaggio. New York, Boston, Atlanta, Denver, Chicago, Oakland, Los Angeles, Seattle, Austin, Pittsburgh, Miami, Philadelphia. «Hands up, don’t shoot», abbiamo le mani alzate, non sparate. E poi «no justice, no peace», niente pace senza giustizia.
il padre di michael brown urla di dolore
A New York giovedì scorso un poliziotto aveva ammazzato per errore Akai Gurley, un ragazzo nero di Brooklyn freddato nelle scale di un palazzo, mentre girava disarmato e innocuo. Quindi la gente era pronta ad alzare la voce. La protesta comincia sugli snodi del traffico nella zona est di Manhattan, davanti all’Onu, alla stazione Grand Central che porta i pendolari verso le periferie a nord della città, al Midtown Tunnel che conduce invece verso il Queens e Long Island.
La polizia accorre. Prima osserva, e poi minaccia di arrestare chi non si leva di mezzo. Mark Johnson, un nero che lavora qui vicino, tiene per mano un bambino: «Lo faccio per mio figlio, perché domani potrebbe toccare a lui». Nelle stesse ore si accende Times Square, e l’intera West Side. La protesta, improvvisa, marcia verso l’autostrada Fdr che circonda l’isola, e la blocca. Intasa il Lincoln Tunnel, paralizzando il traffico verso il New Jersey.
Un gruppo di ragazzi si avvia verso il Manhattan Bridge, quello che porta a Brooklyn, e cerca di prenderne il controllo. La polizia comincia a tirare fuori le manette di plastica: l’ordine sarebbe quello di lasciar scivolare la protesta, per evitare liti e scontri che potrebbero farla degenerare nelle violenze di Ferguson. Fin a un certo punto, però. Jane, una veterana di «Occupy Wall Street» con i capelli viola, spiega perché non vedeva l’ora di tornare in piazza: «Ci hanno tappato la bocca, ma i problemi sono rimasti irrisolti. Il razzismo, la violenza contro i neri, fanno il paio con la diseguaglianza che governa l’America. Pochi bianchi e ricchi hanno tutto, e usano la forza per evitare che gli altri li obblighino a condividere le opportunità del nostro Paese».
piccolo gruppo di persone manifesta a ferguson
Il presidente Obama lancia un messaggio diverso: «Niente pazienza per le violenze, ma questo è un problema nazionale che va affrontato». Poi dice: «Serve una risposta costruttiva». Infatti annuncia che il ministro della Giustizia Holder terrà una serie di incontri in varie regioni, per discutere la questione della violenza della polizia. È poco, però, e tardi. La protesta è diventata nazionale perché ormai va oltre Ferguson, la morte di Mike Brown, l’agente Wilson, che forse era stato davvero aggredito. È il segno di un malessere più grande, che magari fra qualche giorno tornerà sotto la terra, ma continuerà a eroderla.
manifestanti davanti alla polizia di ferguson
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