DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Simone Di Meo per Dagospia
Immaginate di camminare per i fatti vostri, una sera sul tardi, a Napoli. E di finire un attimo dopo in una volante della polizia con l'accusa di aver molestato una studentessa che non avete mai visto in vita vostra. Di cui non conoscete il viso, né il nome né l'indirizzo.
E immaginate ancora di trascorrere qualche mese in galera, nel padiglione dove sono rinchiusi quelli condannati per reati sessuali, e tanti altri ai domiciliari. In totale, immaginate di aver passato 210 giorni in stato d'arresto. Senza aver fatto nulla.
Ecco, anche così (ma fortunatamente non solo così) si fanno le indagini a Napoli dove un giornalista di 35 anni, Roberto Ruju, ha rischiato di passare in carcere un bel po' di anni perché, proprio come nel processo di Kafka, si è trovato stritolato dalla (in)giustizia senza un apparente motivo.
Gli agenti di una volante (è il 15 novembre 2014) lo fermano mentre sta camminando a parecchie centinaia di metri dal luogo dell'aggressione. Nulla dovrebbe portare a sospettare di lui: non indossa gli abiti del maniaco e pure la montatura degli occhiali è differente. Scura quella del bruto, bianca quella di Robertino. Invece, viene portato in Questura e sottoposto a fermo perché riconosciuto chissà come dalla vittima ancora in stato di choc.
L'indomani, la notizia rimbalza su giornali e tv. Per tutti, Roberto è un maniaco sessuale che ha approfittato di una ragazza nell'androne buio di un palazzo nel centro della città durante una piovosa serata d'inverno. La sua vita è distrutta. E tutti a lodare gli agenti che hanno risolto il caso in tempi record. Vedrete come l'hanno risolto.
Segue la solita trafila che appassiona tanto gli amanti della cronaca nera: rinvio a giudizio, processo segnato e condanna certa. A dibattimento quasi concluso, entra però in scena il nuovo difensore di Ruju, l'avvocato Maurizio Lojacono. È lui che inizia a studiare minuziosamente un video di una telecamera di sicurezza di un palazzo vicino che riprende la sequenza dell'inseguimento e dell'aggressione alla vittima. Saranno quelle immagini a far crollare le (errate) certezze della Procura e degli agenti dell'Ufficio prevenzione generale che, per quest'arresto, hanno ricevuto addirittura un encomio dal questore.
Crollano le certezze non solo perché l'uomo nelle immagini porta dei guanti bianchi e delle scarpe fluorescenti che Ruju non ha mai posseduto, ma soprattutto perché i conti, lancette alla mano, non tornano. Negli stessi attimi in cui la ragazza subiva la violenza, il giornalista si stava facendo un selfie dall'altro lato del lunghissimo corso Umberto, dove nemmeno la velocità di Usain Bolt l'avrebbero potuto portare in poco meno di un minuto e mezzo. Anzi, di foto l'ignaro Robertino se ne farà tre che invierà ai suoi amici via Whatsapp. Saranno la sua salvezza.
Incrociando gli orari degli sms, grazie a una perizia sul cellulare chiesta e ottenuta in extremis dall'avvocato Lojacono a un titubante collegio giudicante, con il timing del video (anticipato di sette minuti rispetto a quello in sovraimpressione, ma questo dettaglio nessuno tra pm e polizia si era preoccupato di controllarlo eccezion fatta per il legale) l'innocenza è provata.
Tant'è che sarà lo stesso pubblico ministero a chiedere prima la scarcerazione e poi l'assoluzione per Robertino. Oggi, Ruju sta faticosamente provando a tornare alla vita di sempre. Ma non è facile riprendere a campare dopo una tragedia del genere. Perché, a Napoli, di sera bisognerebbe al più avere paura dei malviventi e non degli sballati metodi d'indagine di una volante della polizia.
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