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IL JET LAG E’ PIÙ DURO SE SI VOLA VERSO EST/2 - LO DICE LA MATEMATICA: TUTTO DIPENDE DALLE CELLULE CHE NELL’IPOTALAMO REGOLANO IL NOSTRO RITMO INTERNO - MA DOPO I 40 ANNI SI TENDE A SOFFRIRE MENO PER IL CAMBIO DI FUSO ORARIO

Cristina Nadotti per “la Repubblica”

 

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Lo dice la matematica. All’amico appena tornato da Bangkok che è vispo come un grillo, mentre voi, tornati da New York, vi muovete come zombie, potete provare nero su bianco che non dipende dai Manhattan che vi siete scolati. Il jet lag è peggiore quando si viaggia verso Est, la scienza l’ha provato e quindi ora spera di trovare anche una soluzione.

 

Tutto dipende dalle cellule che nell’ipotalamo regolano il ritmo del nostro orologio endogeno. All’incirca ogni 24 ore, 20mila cellule speciali, indicate come “pacemaker”, deputate cioè a regolare il ritmo sonno/ veglia, si sincronizzano, segnalando al resto del corpo se è giorno o notte.

 

Queste cellule sanno quale segnale mandare al nostro organismo sulla base della luce al quale siamo esposti. In pratica, se c’è buio il segnale è “dormire” se c’è luce l’indicazione è “svegliarsi”. Capire se è giorno o notte è difficile quando si attraversano più fusi orari, così le cellule “pacemaker” vanno in confusione e non riescono più a sincronizzarsi.

 

Questo provoca il jet lag, quella sensazione di spossatezza, stordimento, malessere generale, che dura per alcuni giorni, insieme alle difficoltà a dormire all’ora giusta.

Il nostro orologio interno, tuttavia, non è tarato su 24 ore esatte, resta un po’ indietro e in assenza di segnali chiari di luce e buio tende ad allungare ancora la giornata.

 

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«Così — ha spiegato al New York Times Michelle Girvan, fisico dell’Università del Maryland, autore del modello matematico del jet lag — il fatto che il nostro orologio endogeno si basi su un tempo maggiore di 24 ore si adatta meglio ad allungare il giorno, come accade quando si viaggia verso Ovest, piuttosto che accorciarlo, come quando si viaggia verso Est».

 

Il gruppo di Girvan ha elaborato un modello matematico prendendo in considerazione il numero di cellule “pacemaker”, la sensibilità individuale alla luce, l’intensità della fonte luminosa, i vari fusi orari e le variabili personali degli orologi interni.

 

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Un po’ come accade per altri modelli di riferimento, per esempio l’indice di massa corporea utilizzato come indicatore del peso forma, gli scienziati sperano di ricavarne una formula per calcolare quanto un certo individuo ci metterà a superare il jet lag. Perché su una cosa sono tutti d’accordo, il fastidio che percepiamo dopo un viaggio intercontinentale varia moltissimo da persona a persona.

 

Anzi, sottolinea lo psicobiologo Alberto Oliverio, «il ritmo dell’orologio endogeno varia a seconda dell’età, per cui dopo i 45/50 anni si tende a soffrire meno per il jet lag». Il modello di Girvan è però servito a capire che talvolta si può stare peggio ad attraversare pochi fusi orari. Ci vogliono 8 giorni circa per riprendersi da un viaggio attraverso 9 fusi orari, se non si fa niente per accelerare la sincronizzazione.

 

Ma ce ne vogliono 13 se si percorre la stessa distanza verso Est. Il tempo di recupero, insomma, è maggiore che se si facesse il giro del mondo. In attesa della melatonina perfetta o della pensione per viaggiare a ritmo naturale, non resta che il vecchio rimedio: meglio non fare i nottambuli e alzarsi con il canto del gallo. Del punto di arrivo, naturalmente.

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