RIUSCIRÀ SALVINI A RITROVARE LA FORTUNA POLITICA MISTERIOSAMENTE SCOMPARSA? PER NON PERDERE LA…
Quirino Conti per Dagospia
Mai quel viale era apparso tanto livido e vuoto. E gli alberi più scheletriti, e le ombre più tormentate e cupe. Mancava solo il cigolio ciondolante di uno smorto lampione perché la scena fosse completa. Per un ciak sinistro.
E invece era realtà: una delle molte notti di solitudine di questi ultimi giorni senza più vita. Eppure qua e là riluceva qualche terrazzo, come se il fermento dell’esistenza si fosse relegato in alto, tra giardini pensili e attici lugubremente fioriti; lasciando il fondo della città al suo vuoto disperato.
In una di quelle serate, un minaccioso drone, senza neppure un ronzio, si mise a spiare uno svettante superattico che sembrava dare qualche segno di vitalità.
Era una cena. Non la sola, invero, in quei giorni di solitudine obbligatoria. Ma qui c’era di più, a leggere quel che si diceva dalle labbra dei convitati.
Il tema era il Tempo e la Grande Illusione di questa Modernità: di appartenere tutti a una giovinezza protratta senza limite. In effetti, l’età media (benché negata in qualsiasi modo) consentiva di riflettere per lunga esperienza. Con il rammarico di una primavera – mai tanto radiosa – ormai sprecata per sempre e senza alcuna garanzia di ritorno.
VECCHIAIA E SESSO a d e e f a f wi
Mentre, appunto, la Grande Illusione veniva polverizzata da un oscuro nemico che ingoiava le stagioni migliori senza lasciare più sogni e chimere.
A quella tavola si diceva – o magari si pensava soltanto – che giorni preziosi erano stati loro sottratti, riprecipitando ognuno dentro la propria identità; quindi, che l’inganno di essere tutti seduttivi e seducenti, tutti, nessuno escluso, era ormai svelato; che la vita ora imponeva come dichiarata e senza più scampo la propria vecchiezza (quale che fosse), anche solo appena abbozzata.
Perché il mostro si stava nutrendo dei miraggi di ciascuno. Di quella Grande Illusione figlia degenere del business globale e di una ingorda finanza. Giacché, più o meno bardati di patetico giovanilismo, tutti si era creduto di poter godere di primavere innumerabili, in un paese di vecchi;
di non differire in nulla da giovinezze dalla pelle realmente di pesca (una bellezza vera, la loro, senza sottotitoli), grazie a impalcature di ogni genere per tenere in piedi la più penosa delle menzogne.
Mentre ora, a tavola, si era tutti nella propria generazione. Quella impietosa, che neppure il più frivolo camp che arredava gli ambienti circostanti riusciva a stemperare.
Altra cosa si fosse investito in fondi oro senesi o in tavole umbre trecentesche. Allora sì, si sarebbe potuto essere anche gloriosamente antichi senza essere mai stati vecchi. Ma ora il gioco era scoperto: una primavera se ne stava andando portando con sé chissà quante altre stagioni piene di sole e di luce.
E la Moda? Non c’era più mezzo di tornare seduttivi, perché niente può restituirti i tuoi giorni quando il mostro ti ha costretto a svenderli.
Ma ognuno tra sé e sé pensava di essere stato amato perché davvero desiderato: e qui era l’abissale inganno. Con lo Stile che aveva fatto salti mortali per facilitare la beffa; o almeno per lubrificarne il fervore.
Ora non restava che gustare un buon dolce e concludere la cena; prima di ridiscendere tra le ombre. Perché lo spettacolo era terminato. Con ciascuno, che deposta la maschera, si costringeva a rientrare nei propri panni. Dolorosamente, maledicendo quel virus.
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