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Angelo Ferracuti per “Specchio – La Stampa”
C'era solo il rumore dei passi che rimbombavano tutte le volte che Gaetano Serafino saliva con in mano una torcia i 380 scalini di marmo per arrivare fino in cima al faro di San Cataldo, un'antica torre ottagonale costruita nel 1869, a 66 metri dal livello del mare.
L'unico a spaventarsi era il cane Argo, un meticcio dal pelo nero che non l'ha seguito mai, «è tranquillissimo, ma quando iniziavo a salire, sentiva i rumori, pensava che fossi in pericolo e cominciava furioso ad abbaiare, lo faceva solo quando andavo lassù». Lì in alto, nell'osservatorio dove la città di Bari scopre un altro volto, la luce si accende un minuto dopo del tramonto, il fascio illumina la costa indicando la rotta del ritorno in porto ai naviganti, tre lampi di un secondo, intervallati da un doppio periodo di buio di 3 e un terzo più lungo di 10.
Poteva capitare che Gaetano restasse incantato a guardare l'Adriatico e a fantasticare in silenzio, un silenzio che gli ha fatto compagnia per molti anni.
Il 1° aprile, raggiunto il pensionamento, per la prima volta nella sua vita si è trasferito in un condominio, dopo i 51 anni passati tra le mura del faro e prima ancora nei fari dove lavorava suo padre Michele, arruolato in Marina a 16 anni, eroe della Seconda guerra mondiale, tra i pochi superstiti della battaglia di Pantelleria, quando l'incrociatore Trento fu affondato da un sommergibile britannico, e nel 1953 per la prima volta farista sull'Isola di Capo Rizzuto, poi in quella di Sant' Andrea a Gallipoli.
Fin da piccolo
«Sono stato concepito dentro un faro», racconta Gaetano, un uomo magro e mite che indossa un cappellino blu con la visiera e parla misurato, con fare timido, aggirandosi negli uffici al pianoterra dove c'è tutta la storia del faro e della sua famiglia, le fotografie appese alle pareti, vecchi cimeli, e il cannocchiale con cui lui, figlio d'arte, osservava rapito il mare e le navi in lontananza.
Mostra anche un quadro con la cima della nave Amerigo Vespucci, imbarcazione dove ha navigato il nuovo farista, Luigi De Cesare, anche lui dipendente della Marina militare, che spiega: «Il nostro non è un lavoro normale, perché si fonde con la vita privata, tu sei il guardiano del faro ma lo sei sempre, non esiste un orario lavorativo». Così quando la sera esce a cena con gli amici controlla sempre i fanali nel porto: «Funzionano? Sono tutti accesi? È un'indole», dice.
Scienziato mancato
Gaetano era iscritto a Scienze Biologiche quando decise di mollare e iniziare a fare quella vita, «mi piaceva tantissimo, così sono stato sei mesi a La Spezia, due anni a Vieste sull'isola di Santa Eufemia, quindi a Santa Maria di Leuca, San Vito Taranto, poi nel 1987 quando è andato in pensione mio padre sono venuto qui».
Prima del matrimonio, per dodici anni, ha vissuto solo dentro queste stanze, ma non ha mai temuto la solitudine, «a Vieste sono rimasto isolato un Natale e Capodanno dopo una tempesta di mare, era saltata la linea telefonica». Ricorda inverni lunghissimi, con il vento, la pioggia, i temporali - «qualche volta mi sono sentito in pericolo» - trascorsi vivendo da solitario e andando a pesca, «leggevo molti libri d'avventura, libri per ragazzi, cercavo di recuperare gli anni perduti, Jack London e poi Collodi».
Ricordi di mare
Una volta, quando era al faro di Sant' Andrea di Gallipoli, ancora ragazzo, approdarono sull'isola dopo una tempesta alcuni marinai naufraghi, che avevano dovuto abbandonare la barca perché era affondata: «Mio padre li accolse, diede loro delle coperte, dei vestiti, mentre mia madre preparò subito un brodo caldo per riscaldarli».
Fino a trent' anni fa funzionava tutto manualmente, ogni sera lui saliva sul faro, «per dare la carica al congegno, che durava tredici ore, poi il giorno dopo tornavo qui di nuovo» spiega prima di iniziare a salire, «adesso è tutto automatico, c'è il telecontrollo, ci arriva un sms quando c'è un'avaria, ma il faro ha sempre la sua funzione», perché come gli ha detto una volta un pescatore «il GPS mi dice dove mi trovo, invece, il faro mi indica la posizione esatta dove sono».
Comincia ad avanzare lentamente, la scalinata serpeggia ripida verso l'alto, in certi tratti dalle cornici delle piccole finestre si aprono squarci di terraferma e azzurro del mare, ogni tanto si ferma, racconta: «Sull'Isola di Sant' Andrea a Gallipoli sono stati gli anni più belli, eravamo tre famiglie, cinque bambini in tutto, ho fatto anche le prime classi delle elementari, veniva la maestra in barca, accompagnata dal padre, un vecchio pescatore, eravamo liberi, ci sorvegliava solo la cagna Fida».
In cima
Continua a salire passo dopo passo fin quando non arriva a una scaletta metallica superata la quale si apre una botola e si raggiunge la cima. Sotto c'è il vecchio ingranaggio che una volta si azionava manualmente a manovella: «Ha la stessa funzione di un orologio, davo la carica per mettere in moto l'ingranaggio e muovere un'ottica ruotante da un tamburo dove è avvolto un cavo metallico e al fondo c'è un peso di ghisa che scende lentamente».
gaetano serafino in cima alla torre del faro di san cataldo
Arrivati sopra, protetti dal tetto e da una struttura fatta di vetrate, al centro c'è la lanterna stile liberty, il complesso sistema di specchi dell'ottica di Fresnel. Lì lo sguardo domina tutto: di fronte il mare, che si perde all'orizzonte, e dietro la città vista dall'alto, un maestoso groviglio di palazzi, case e arterie stradali. «Quando siamo arrivati non c'era nulla, questi palazzi alti sono stati costruiti negli Anni 80, prima c'erano tutte case basse, villette».
Sua madre gli raccontava che ancora prima, negli Anni Venti, quello di San Cataldo era un luogo residenziale, poi per via del porto divenne un quartiere a luci rosse, «adesso è un quartiere dormitorio, non ci sono molti servizi, la gente viene a vivere qui solo perché è vicino al mare». Gaetano è andato ad abitare in un appartamento di uno di quei palazzi perché non vuole allontanarsi dal suo mondo, dove ha vissuto una vita e dove sono nati i suoi figli.
Ora è diverso
Anche il porto è cambiato, c'è più traffico marittimo, verso la Grecia, verso l'Albania, ma il mare no, per uno che ama il mare secondo lui è sempre lo stesso. Da questo posto Gaetano ha visto arrivare anche la nave mercantile Vlora, era l'8 agosto 1991, con a bordo ventimila albanesi richiedenti asilo che l'avevano assaltata a Durazzo costringendo il comandante, Halim Milaqi, a navigare verso l'Italia.
«Era di pomeriggio, sono salito quassù e si vedeva questa nave traboccante di gente che arrivava in porto, era strapiena, tutti i corpi ammassati, persone arrampicate sull'albero o che si buttavano in mare, venivano in direzione del faro a nuoto, spaventati scappavano verso la città».
Gli mancherà guardare Bari da questo osservatorio tra i cieli, così come tutte le stanze dove ha abitato elavorato, mentre passavano le stagioni, gli anni, e la vita scorreva, confessa malinconico, l'osservatorio dove si fermava solitario nel silenzio a pensare, a ricordare. «Mi isolavo completamente, trovavo la pace, quando salivo qui in cima dove sta la lanterna guardavo il mare e mi sembrava di stare in un altro mondo».
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