
LA MOSSA DEI DAZI DI TRUMP: UN BOOMERANG CHE L’HA SBATTUTO CON IL CULONE PER TERRA – DIETRO LA LEVA…
Gianni Santucci per âIl Corriere della Sera'
Corridoio vuoto. Un piccione a terra. Poi compare un uomo, giacca di pelle, felpa con cappuccio, armeggia per qualche secondo nella tasca posteriore dei pantaloni. Quando tira fuori il braccio e lo alza, sul pavimento di marmo chiaro si staglia il profilo di una lama scura, lunga trenta centimetri, alta dieci, una mannaia che assomiglia a uno strumento da macellaio. L'uomo inizia a picchiare: uno, due, tre colpi.
La vittima, in quel momento, è ancora fuori dall'inquadratura; compare poco dopo, tiene le mani alzate, barcolla, non scappa. Sui monitor della polizia ferroviaria di Milano, l'orologio segna le 23 e 7 minuti.
Un agente, in centrale, assiste in diretta all'aggressione sugli schermi che trasmettono a rotazione le immagini delle telecamere di sicurezza. I poliziotti scendono nel mezzanino della Stazione Centrale. Trovano la vittima; un profondo taglio gli attraversa il volto, dall'occhio al mento. Poi escono.
Raggiungono l'aggressore in una strada vicina, via Sammartini; lui si appoggia con le spalle a un muro e continua a tirar colpi nell'aria, per tenere lontani gli agenti; i poliziotti lo disarmano e lo ammanettano. Ã quasi la mezzanotte del 3 febbraio quando Abdel Kader Farth, 31 anni, algerino, documenti non in regola e molti precedenti per reati da strada, viene portato nell'ufficio della Polfer.
Durante l'interrogatorio dice poche parole, balbetta, non spiega. E così l'origine di questa vicenda viene catalogata con quell'espressione, «futili motivi», che nei verbali di polizia e carabinieri riempie la casella «movente» per fatti chiari, ma difficili da spiegare e da comprendere. In questo caso, la sproporzione tra inconsistenza della lite e violenza dell'aggressione sembra ancora più ampia.
Qualcosa racconta il contesto: sia l'aggressore, sia la vittima (tunisino, 39 anni, portato in ospedale e curato con oltre 50 punti di sutura, non in pericolo di vita), sono «senza fissa dimora». Persone che gravitano intorno alla stazione; passano giornate e serate tra corridoi, mezzanini e le piazze dei dintorni; riempiono le loro ore con cartoni di vino da pochi euro; per la maggior parte del tempo si trascinano annebbiati senza creare problemi, ma ogni tanto si ritrovano a litigare per piccole cose, inconsistenti ed estemporanee antipatie.
Questa sembra l'unica possibile spiegazione per il tentato omicidio del 3 febbraio, nella stazione che a quell'ora è ancora aperta, ma quasi deserta, e comunque sorvegliata dalle oltre 260 telecamere che in tarda serata inquadrano solo banchine, corridoi e mezzanini vuoti.
Al momento dell'aggressione la vittima era molto ubriaca, l'uomo con la mannaia forse un po' meno, ma comunque poco lucido. Con loro c'erano altre due persone; probabilmente tutti si conoscevano.
Uno scappa e si rifugia dietro un angolo del corridoio sul quale si affacciano le vetrine serrate di alcuni negozi. L'altro ha uno zainetto sulle spalle e un ombrello in mano, sembra non spaventarsi, prova a interrompere la lite. Non riesce però a bloccare l'algerino: ha già picchiato, riparte e scaglia l'ultimo colpo; il ferito resta là barcollante, appare smarrito, la lama gli ferisce una mano.
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