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Giampiero Mughini per Dagospia
Caro Dago, vedo che sui giornali di oggi “il caso Argento” ha amplissimo spazio. In articoli quasi sempre firmati da donne, e come se i direttori di questi giornali volessero premunirsi nei confronti dei loro lettori e soprattutto lettrici. Trent’anni fa, quando facevo il giornalista e avevo come direttori maestri del giornalismo quali Lamberto Sechi e Claudio Rinaldi, di certo mi sarei occupato io del “caso Argento”. Perché avevo una particolare sensibilità per quel tipo di vicende, e perché ovviamente i miei direttori sapevano che mai e poi mai un’ombra di “maschilismo” avrebbe macchiato i miei pezzi.
Quando nel 1980 il professor Popi Saracino, una figura molto nota di una Milano segnata dai moti e dai protagonisti del Movimento studentesco, venne accusato da una sua bella allieva di averla violentata a casa sua, fu io ad occuparmene sull’ “Europeo”. Le circostanze dell’episodio erano un tantino ambigue, sì che lo erano. La ragazza era salita di sua volontà nell’appartamento milanese di Saracino. Il quale ammetteva il rapporto, che non era affatto il primo, e diceva che era stato “un rapporto travolgente” e del tutto consenziente. La ragazza diceva di no, che era stata violentata contro il suo consenso.
Telefonai all’avvocato della ragazza, un’avvocatessa allora celeberrima. Le feci presente il particolare non da poco conto, che il collant della ragazza era sopravvissuto integro a un rapporto che lei diceva essere stato violento e sopraffattorio.
L’avvocatessa mi disse che la ragazza aveva avuto paura e s’era tolto il collant per evitare il peggio. Era dunque la parola dell’uno contro la parola dell’altra. Un caso dubbio? Eccome se lo era. Avevo dubbi, non certezze nell’uno o nell’altro senso. Quel che feci trapelare dal mio articolo sull’ “Europeo”.
asia argento e jimmy bennett dylan e cole sprouse
Nel gennaio 1985 i giudici di appello assolsero Saracino con formula piena. C’era stato l’amore fisico tra i due, non la violenza. Popi l’ho conosciuto molti anni dopo, in casa del mio amico Alfio Caruso. Al tempo delle accuse della ragazza, s’era fatto non ricordo più quanti anni di cella. A casa di Caruso, mi diede la sua versione dei fatti per come si erano svolti cinque anni prima nella sua casa milanese.
Una parola contro l’altra ha l’aria di essere anche questo recentissimo “caso Argento”, ossia la presunta violenza psicologica e sessuale che la trentasettenne Asia Argento avrebbe operato ai danni di un bel fanciullo allora diciassettenne, un attore americano che lei aveva precedentemente impiegato in un film di cui era la regista. Ebbene lui dice di aver subito dalla donna una tale violenza da aver computato in tre milioni e mezzo di dollari il danno avuto, perché ne era stata avvilita una sua carriera da attore che altrimenti sarebbe stata fulgida e speciale. Nientemeno.
C’è che l’ex bel fanciullo diciassettenne pare abbia querelato anche i genitori, chiedendo anche lì una bella somma. Contro la versione dei fatti quale lui e il suo avvocato la presentano, ci sono i “selfie” che i due si scattarono dopo il fatto, selfie che svelano un reato di buon gusto e non un reato di stupro.
C’è, particolare non da nulla, il fatto che la Argento ha sborsato la bellezza di 200mila dollari e quasi altrettanti ne dovrebbe sborsare pur di tacitare le angustie dell’anima dell’ex minorenne. Fino al momento in cui scrivo, la Argento non ha profferito motto. La parola dell’uno contro la parola dell’altra? Probabile.
Se io ho dei dubbi su un episodio talmente ambiguo? Eccome se li ho. Se c’è un furbastro che cerca di spillare quattrini puntando sul fatto che all’epoca era un minorenne, o c’è una donna un tantino ninfomane che reputa “ogni lasciata è persa”?. Non so. Dubbi, non certezze nell’uno o nell’altro senso.
asia argento, jimmy bennett winona ryder 4
Detto questo, chi di stupro ferisce di stupro rischia di perire. E’ in forse la presenza della Argento a una celebratissima trasmissione televisiva, dov’è palmare che lei fosse stata assunta per il quantum di notorietà che si era assicurata dicendo peste e corna di un produttore cinematografico energumeno con cui aveva avuto poi una relazione durata tra i quattro e i cinque anni, un dare/avere durato fra i quattro e i cinque anni, uno scambio in cui ad avere dei vantaggi erano ora l’uno ora l’altra.
Ho dei dubbi su com’è andata quella vicenda? Eccome se li ho. Non so. Ho dubbi, non certezze nell’uno o nell’altro senso. Chi si avvale della notorietà data dai titoli di giornali, prima o poi paga quello che i titoli di giornali diranno contro di lei o di lui. Viviamo nell’era dei social, quando impazzano turbe di semianalfabeti che tuonano e insultano e spaccano la mela in due e pontificano su vicende cumane complesse e ambigue di cui non sanno altro che i titoli dei giornali e semmai qualche tweet intravisto sul computer.
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Oggi sono i titoli dei giornali, non i giudici, a fare i processi e a stilare le sentenze. Colpevole non so bene di che cosa se non dell’attrazione erotica di un omosessuale per dei bei ragazzi, uno dei due o tre più grandi attori cinematografici moderni, Kevin Spacey, è stato cancellato dalla settima arte e i giornali di questi giorni quasi tripudiano del fatto che nessuno sia andato a vedere un film da lui interpretato.
Dio mio, che orrore.
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