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Federico Bianchi per “la Notizia”
I numeri facevano (e continuano) a far paura: nel 2015 circolavano liberamente in Europa oltre 53 miliardi di sigarette illegali, con un danno economico pari a circa 12 miliardi di euro. Nello stesso periodo soltanto in Italia, i milioni lasciati dal nostro fisco nelle mani della criminalità organizzata sono stati oltre 800.
A tre anni dalla Direttiva Europea sul Tabacco, i burocrati di Bruxelles discutono molto ma non sono arrivati ad una soluzione efficace ed economicamente sostenibile per delineare la composizione migliore del sistema di tracciabilità, l’unica via percorribile per arginare la libera circolazione di tabacco illegale e la conseguente emorragia per le casse degli stati membri.
Dimenticando per un attimo i danni per la salute, la velocità con la quale il contrabbando sta continuando a correre, e gli inquietanti utilizzatori finali di questi proventi illeciti, ( dalla camorra napoletana all’ISIS, passando per le più importanti organizzazioni criminali internazionali), è la totale approssimazione con cui la Commissione sta affrontando la faccenda che lascia ancora una volta esterrefatti.
Dopo molte consultazioni ad hoc per risolvere la questione, gli Junker boys hanno infatti partorito l’ennesimo topolino. Per recuperare (o almeno provarci) i 12 miliardi persi sono essenzialmente tre le strade individuate; la prima vorrebbe una gestione della tracciabilità dei pacchetti affidata esclusivamente a una società terza indipendente; la seconda vorrebbe demandare la questione all’industria; la terza via punta invece a creare una sinergia tra le parti.
La furia anti tabacco di Bruxelles, dopo aver “tagliato” l’accordo sul contrasto al contrabbando con il gigante Philip Morris (che per le casse dell’UE valeva 1,25 miliardi di euro), si è abbattuta sulle multinazionali tutte, escludendo di fatto i più impattati dal fenomeno e dunque i più interessati ad arrestarlo.
La parte terza “indipendente” e sopra le parti spetterebbe invece alla società svizzera di SICPA, che come sistema di tracciabilità per il commercio di sigarette ha presentato una proposta per l’utilizzo di etichette. Una soluzione non esattamente rivoluzionaria ma estremamente costosa.
La società elvetica, che in Europa si è sempre mossa a fari spenti, è invece finita sotto i riflettori in Africa e Sud America. In Brasile SICPA ha attratto l’interesse della stampa internazionale per una brutta storia di corruzione: alcuni funzionari pubblici avrebbero ricevuto tangenti per circa 30 milioni di euro per affidare la gestione del sistema di tracciabilità delle bevande rinfrescanti agli svizzeri.
Accuse analoghe sono arrivate dal Marocco, dalla Tunisia e dal Kenya dove il sistema di tracciabilità ideato dagli svizzeri è stato classificato come “ad alto rischio” dalle stesse autorità locali.
Le poco rassicuranti vicende penali non sembrano però aver risvegliato l’interesse dei commissari di Bruxelles, e, tra loro, il meno informato sembra il socialista Gilles Pargneaux primo tifoso della soluzione rosso-crociata, e sponsor di tal Leszek Bartlomiejczyk, un ex dirigente di SICPA a cui, a Bruxelles, ha affidato il compito di illustrare le potenzialità di un metodo “terzo e indipendente”.
E in Italia? Il nostro fisco percepisce ogni anno oltre 12 miliardi di euro dalla vendita dei prodotti del tabacco, e nel nostro paese è stato sperimentato un sistema in linea con la Direttiva europea, nato dalla collaborazione tra l’Amministrazione Autonoma dei Monopoli e le multinazionali del tabacco. Il modello misto ha però il “difetto” di funzionare, di costare poco e soprattutto di essere replicabile a livello europeo.
Complice l’ormai inesistente peso specifico dell’Italia in queste faccende, oltralpe sembra non essersene accorto nessuno. I contrabbandieri di tutto il continente possono tutto sommato continuare a dormire sonni tranquilli, Bruxelles ha già spento la luce.
2 - SMETTERE DI FUMARE SENZA DIRE ADDIO AL TABACCO. IL FUTURO DEI COLOSSI DELLE SIGARETTE
Da www.agi.it
iqos sigaretta philip morris 3
“Progettare un futuro libero dal fumo”. Lo slogan non appare sull’homepage di un’associazione salutista ma su quella di Philip Morris International, insieme a BAT, Reynolds American e Altria uno dei quattro colossi mondiali del tabacco. “Quanto a lungo il maggior produttore mondiale di sigarette resterà nel business delle sigarette?” il quesito che svetta sulla schermata.
Sembrerà un paradosso ma la direzione verso la quale si stanno muovendo le multinazionali del fumo è esattamente questa: soddisfare la dipendenza da nicotina dei clienti con prodotti meno pericolosi per la salute rispetto alle sigarette. E qua occorre farsi venire delle idee, dato che lo snus svedese difficilmente diventerà un prodotto per il consumo di massa.
TRE MILIARDI SPESI IN RICERCA E IL FUTURO SI CHIAMA IQOS
Philip Morris, nondimeno, fa sul serio: di 26 miliardi di dollari di fatturato incassati lo scorso anno, circa 3 sono stati spesi in ricerca. Il primo risultato è si chiama IQOS, tabacco che si riscalda, ma non brucia. Un prodotto che dovrebbe risultare più soddisfacente della sigaretta elettronica e che consentirebbe di non dover sacrificare l’enorme indotto delle piantagioni di tabacco. IQOS per ora è disponibile in Giappone, dove ha già conquistato il 7% del mercato, e sarà presto venduto anche in altri Paesi. E dall’8 Marzo è nelle tabaccherie italiane.
LA STRADA VERSO LA SALUTE PASSA PER TASSE PIÙ PESANTI
rosie huntington whiteley con sigaretta
Non solo, Philip Morris ha chiesto al governo britannico di tassare i prodotti per fumatori “a seconda del loro profilo di rischio”. In sostanza, l’azienda chiede tasse più alte sulle sigarette per accelerare la transizione verso forme di tabagismo più “salutari”. Negli Usa la compagnia ha invece depositato presso la Food and Drug Administration (Fda) un faldone da 2,3 milioni di pagine, tra ricerche e test clinici, con il quale chiede il diritto di poter vendere l’IQOS come un prodotto “a rischio ridotto”.
Il mercato delle sigarette elettroniche, nel frattempo, non sembra minacciare “Big Tobacco”, essendo prevalentemente in mano a piccole e medie imprese, alcune delle quali hanno dovuto soccombere allo sgonfiarsi del boom di pochi anni fa. NJOY, per esempio, ha dichiarato bancarotta. E, negli Usa, una legge del 2009 ha chiesto a ogni azienda del settore di sottoporre all’Fda una cosiddetta “premarket tobacco application” nella quale dovranno dimostrare che i loro prodotti offrono benefici per la salute, in quanto alternativi alle sigarette. Il costo medio della pratica è pari a 450 mila dollari. Una cifra enorme per una startup, spiccioli per la Philip Morris.
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