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Maurizio Belpietro per "la Verità"
L' altra sera in tv, Piercamillo Davigo ha spiegato, con la perentorietà da tutti conosciuta, che in un processo non esiste alcuno svantaggio tra accusa e difesa, perché il pm è punito se non dice o occulta la verità, mentre l' avvocato dell' imputato può essere condannato proprio se davanti alla Corte racconta fatti veri che possono danneggiare il suo cliente. Tradotto, secondo l' ex esponente del pool di Mani pulite, il vantaggio ce l' hanno i legali, perché
il pubblico ministero è al servizio della legge, mentre i difensori sono al servizio di interessi privati e dunque, in udienza, possono anche raccontare balle. La sentenza tv dell' ex capo di Autonomia e indipendenza, una delle correnti della magistratura, non ammette dubbi: «Sapendo che l' imputato è innocente, se un pm ne chiede la condanna commette il delitto di calunnia. E se sostiene questa sua richiesta con atti falsi, redatti da lui o da altri, commette il delitto di falso ideologico o di falso in atto pubblico». Chiaro, no? La pubblica accusa non può fabbricare prove, non può omettere qualche cosa, non può accusare un innocente sapendo che è innocente.
Ad ascoltare Davigo, sembra tutto perfetto, tutto al di sopra delle parti, tutto a tutela dell' imputato. Un modello da prendere a esempio, così come avrebbe fatto il Consiglio d' Europa, raccomandando agli Stati membri di imparare dall' Italia, Paese che, pur disponendo della giustizia più lenta del mondo, pur avendo un arretrato processuale di anni, pur mandando in prescrizione una montagna di reati, sarebbe un sistema che funziona proprio per le garanzie nei confronti dell' imputato e per la competenza dei suoi magistrati.
Peccato che appena finito di ascoltare le parole di Davigo, uno poi legga la sentenza con cui il tribunale di Milano ha mandato assolti i vertici dell' Eni accusati di aver pagato una tangente miliardaria ad alcuni uomini politici e faccendieri nigeriani. Tra le motivazioni del proscioglimento, c' è un passaggio da brivido: nel documento di 482 pagine, i giudici della VII sezione penale scrivono che la Procura avrebbe omesso di depositare fra gli atti del procedimento «un documento che, portando alla luce l' uso strumentale che Armanna intendeva fare delle proprie dichiarazioni e dell' auspicata conseguente attivazione dell' autorità inquirente, reca straordinari elementi in favore degli imputati».
In pratica, i giudici spiegano che senza il deposito di quel documento sarebbe stato sottratto «alla conoscenza delle difese e del tribunale un dato processuale di estrema rilevanza». Cioè il giudizio sarebbe stato viziato dall' occultamento di una prova a favore degli imputati.
Alcuni lettori probabilmente ricorderanno di che cosa io stia parlando, perché La Verità è stato l' unico giornale che quel documento lo ha raccontato quando ancora nessuno o quasi ne conosceva l' esistenza. Si tratta di un video registrato dall' avvocato Pietro Amara, ossia di colui che l' altro ieri la Procura di Potenza ha fatto arrestare, in cui è possibile ascoltare una conversazione con Vincenzo Armanna, ex dirigente dell' Eni che insieme al succitato legale è stato uno dei testimoni chiave dei pm di Milano contro i vertici della società petrolifera.
Nella registrazione, Armanna, che due giorni dopo si recherà in Procura accusando i manager del gruppo, manifesta l' intenzione di «ricattare» i vertici del cane a sei zampe, preannunciando l' intenzione di rivolgersi ai pm milanesi per far arrivare «una valanga di merda» e «un avviso di garanzia» all' amministratore delegato e ai suoi colleghi. In sostanza, si capisce che Armanna aveva «interesse a cambiare i capi dell' Eni per sostituirli con uomini di suo gradimento, così da poter essere agevolato in alcuni affari petroliferi che stavano a cuore a lui e a Pietro Amara».
Vi state perdendo nel guazzabuglio di nomi? Niente paura, per un po' ho faticato anche io a raccapezzarmi. In poche parole, due tizi si dicono pronti a vuotare il sacco con i pm, per poter togliere di mezzo chi li intralcia, un intento che non pare certo quello di fare giustizia, ma semmai di fare affari. Scrivono i giudici: «L' intenzione era quella di gettare un alone di illiceità sulla gestione da parte di Eni».
Peccato che questa prova chiave, che avrebbe dovuto chiarire tutto fin da subito, evitando un processo dispendioso e un impegno di risorse pubbliche, i pm non l' hanno prodotta, dimenticandosene inspiegabilmente, e dunque il testimone dell' accusa animato da così poco disinteressate intenzioni, ha potuto trascinare per anni un procedimento che probabilmente non sarebbe mai dovuto neppure iniziare.
Dunque torniamo all' inizio, alla parole di Davigo pronunciate in tv senza contraddittorio, così sicure, ma così lontane dalla realtà se messe a confronto con ciò che accade in certe aule di giustizia. Una cosa tuttavia appare certa: il Guardasigilli, Marta Cartabia, ha un' occasione formidabile. Mai come in questa stagione, dopo lo scandalo Palamara, dopo le vicende che hanno inguaiato il Csm, dopo gli arresti di magistrati corrotti, si è sentito il bisogno di una riforma che faccia in modo che la legge sia davvero uguale per tutti. Anche per i magistrati.
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