DAGOREPORT – AVVISATE IL GOVERNO MELONI: I GRANDI FONDI INTERNAZIONALI SONO SULLA SOGLIA PER USCIRE…
Giordano Stabile per la Stampa
La via principale di Gerusalemme chiusa per impedire ai cortei di avvicinarsi alla residenza del premier. Barriere e cordoni di polizia. Nella calda estate israeliana, fra emergenza coronavirus e guerre segrete con l'Iran, Benjamin Netanyahu si ritrova di colpo sotto assedio. Fisicamente, e questa volta da parte dei suoi stessi cittadini.
L'elegante quartiere di Rehavia, vicino alla chic «German Colony», dai locali frequentati da giovani in carriera, è da quattro settimane un campo di battaglia. Centinaia, poi migliaia, di manifestanti cercano di arrivare fino sotto le finestre del primo ministro più longevo della storia dello Stato ebraico, sopravvissuto a mille battaglie ma che adesso subisce fendenti da tutte le parti.
Quando vengono bloccati formano picchetti, seduti, con i polsi incrociati nel segno delle manette. «Netanyahu dimettiti», si legge nei cartelli e nei post su Facebook e Twitter, un uragano. I riferimenti sono al processo per corruzione e abuso d'ufficio. La prima udienza è stata rinviata ancora, al 3 gennaio, ma una buona fetta degli israeliani questa volta è stanca di aspettare. La crisi economica indotta dal coronavirus ha spezzato l'aura di invincibilità di King Bibi. Sono passate 19 settimane e mezzo dalle elezioni del 3 marzo, l'ultima mano di poker del premier.
Sembrava quella definitiva perché dopo tre tornate consecutive in meno di un anno Netanyahu era riuscito a convincere e costringere il rivale Benny Gantz a un governo di unità nazionale, alle sue condizioni. Mancava la ciliegina per concludere l'opera, l'annessione di un terzo della Cisgiordania con l'appoggio dell'amico Donald Trump e la data segnata sul calendario, il primo luglio.
E invece no. Il coronavirus ha rialzato la testa, i contagi hanno ripreso a un ritmo mai visto nemmeno durante il primo picco di marzo-aprile, duemila al giorno. Le annessioni sono state rinviate e la protesta è cresciuta come un incendio fra le sterpaglie. Nella notte fra sabato e domenica in migliaia hanno marciato a Tel Aviv dal parco Charles Clore a piazza Habima. La polizia è intervenuta, cariche, getti di cannoni ad acqua, 28 persone sono state arrestate. È un muro contro muro.
«Siamo stanchi di non essere visti, ascoltati, presi in considerazione», si lamentano i giovani sui social. A Gerusalemme altre 15 persone sono state fermate dopo che hanno cercato di forzare la strada verso la residenza del premier, Jaffa Street è stata chiusa. Ma gli arresti non hanno placato al rabbia, anzi. Le manifestazioni si sono spostate ieri nei principali incroci fuori dalla capitale.
Sul ponte Youssef, nella valle di Hula, in centinaia hanno bloccato il traffico, si sono viste bandiere anarchiche, arcobaleno, assieme a quelle nazionale blu e bianche. La sinistra si è mescolata ad abitanti degli insediamenti, in gran parte ancora con «Bibi», ma dove cresce il malcontento.
Alcuni manifestavano «per la prima volta» in vita loro: «Chiudono, riaprono, poi richiudono, adesso basta, la gente non ha più soldi». Altri mostravano i cartelli «resteremo qui finché il primo ministro non si dimette». Con la disoccupazione al 21 per cento, molti piccoli esercizi sull'orlo del fallimento, un nuovo lockdown sarebbe la mazzata finale. Ma incombe.
Ieri il totale dei casi di Covid è salito a 46 mila, le vittime a oltre 400. Il premier ha rinviato le chiusure più drastiche a giovedì, ma l'impressione è che abbia perso il tocco magico. È tentato da una nuova mano di poker, le quarte elezioni anticipate. Ma i sondaggi lo danno perdente. Non gli resta che aspettare, finché passi la tempesta. Se passerà.
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