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DAGOREPORT - DOPO APPENA TRE SETTIMANE ALLA CASA BIANCA, TRUMP HA GIA' SBOMBALLATO I PARADIGMI…
1. DI STEFANO, “IL BRACCIO DESTRO FU ASSASSINATO”
Giuseppe Scarpa e Maria Elena Vincenzi per “la Repubblica”
Alfredo Guagnelli, l’ex braccio destro del deputato Pd Marco Di Stefano, non sarebbe scappato facendo perdere le tracce di sé ma potrebbe essere stato ucciso. Ne è convinta la procura di Roma che ipotizza il reato di omicidio in un fascicolo nel quale per il momento non ci sono indagati.
L’inchiesta si allarga dunque: il procuratore capo Giuseppe Pignatone ha deciso di coordinare i tre pm (Tiziana Cugini, Maria Cristina Palaia e Corrado Fasanelli) che si occupano dei due fascicoli aperti per ora. Quello sulla scomparsa e quello sulla corruzione e falso che vede indagati, insieme ai costruttori Antonio e Daniele Pulcini, anche l’ex assessore al Demanio della Regione Lazio e il suo braccio destro sparito nel nulla nel 2009.
I due avrebbero incassato dagli imprenditori una mazzetta da un milione e 800mila euro per far prendere in affitto alla partecipata della Regione Lazio Service due immobili dei Pulcini all’Eur. Indagini collegate, non fosse altro che per i protagonisti, che fino a ieri venivano gestite separatamente ma che da oggi, invece, viaggeranno su binari paralleli. Una decisione, quella del procuratore, che permetterà agli inquirenti di avere una visione di insieme delle cose per una vicenda che si fa sempre più complicata.
Non bastasse l’omicidio, infatti, dalle carte spuntano altri presunti appalti sospetti che, questa l’ipotesi dell’accusa, potrebbero nascondere mazzette. E così anche dall’inchiesta sulla scomparsa di Guagnelli: diversi i testimoni che hanno parlato di bustarelle dirette ai politici. Un giro nel quale l’ex factotum di Di Stefano potrebbe essere rimasto incastrato. Domande alle quali dovrà rispondere il deputato dem: il suo interrogatorio è previsto nei prossimi giorni.
2. IL POSTO ALLA CAMERA E L’OMBRA DEI RICATTI: DICEVA DI AVERE DOSSIER CONTRO IL PD
Giovanna Vitale per “la Repubblica”
Era assai chiacchierato, Marco Di Stefano. «Ex poliziotto, vantava protezioni ad alti livelli e rapporti stretti con gente dei servizi» sussurrano adesso nel suo partito. Tutti all’improvviso colpiti da una botta di ricordi, proprio ora che i pm romani hanno acceso un faro sul suo presunto giro di tangenti e festini alla coca.
Specializzato nella raccolta di informazioni sensibili e perciò temuto, Di Stefano aveva fama di spaccone: «Il suo tenore di vita era altissimo. Quando si è separato dalla moglie, per far pace con il figlio, ci disse di avergli regalato una Porsche», rivela un dirigente del Pd in cambio dell’anonimato. «Parlava molto, Marco, diceva di sapere tante cose...». Tornate poi utilissime per fare il gran salto in Parlamento: se grazie a un’attività di dossieraggio o a primarie truccate (come ha chiesto di chiarire il senatore dell’Ncd Andrea Augello) saranno ora gli inquirenti a stabilirlo in uno stralcio dell’inchiesta per corruzione che lo riguarda.
Tutto comincia fra fine 2012 e inizio 2013. Quando, alle “primariette” del Pd organizzate per stabilire il posto che i candidati eletti ai gazebo occuperanno nelle liste bloccate di Camera e Senato, Di Stefano arriva “solo” sedicesimo. Forse non sa ancora di essere indagato (notizia che comunque gli arriverà prima delle politiche), ma certo intuisce che qualcosa si sta muovendo e che è necessario mettersi al sicuro. «Nonostante il risultato deludente, grazie al premio di maggioranza le sue chance di entrare in Parlamento restavano comunque buone» ricostruisce un consigliere regionale. «Il fatto è che alla fine Bersani cala nelle liste la “quota centrale”, una serie di suoi candidati in posizione sicura, e Di Stefano scivola ancora più giù». Fino a risultare il primo dei non eletti.
«È allora che l’ex assessore perde la testa». La Guardia di Finanza gli ha già perquisito la casa, sa di essere nei guai fino al collo. Al telefono, in una conversazione intercettata, minaccia «la guerra nucleare, comincio da Zingaretti e li tiro tutti dentro», li accusa di essere «maiali, non è che puoi l’ultimo giorno, l’ultima notte buttar dentro la gente, dopo che dici che stai dentro» e ammette: «Ho fatto le primarie con gli imbrogli».
Soprattutto fa pressioni, Di Stefano. «Vuole garanzie. Il seggio alla Camera». Incontra il segretario del Pd laziale Enrico Gasbarra (col quale i rapporti sono però pessimi) e il reggente di Roma Eugenio Patané. Racconta un testimone diretto: «A tutti diceva di avere dei dossier su alcuni colleghi di partito, ex consiglieri regionali come lui; carte e documenti che avrebbero provato le spese pazze sostenute con in fondi del gruppo pd». In puro stile Fiorito, il capogruppo del Pdl condannato per averli bruciati in cene e Suv. «Era pronto a diffonderli, a far esplodere lo scandalo».
I vertici del partito si preoccupano. Alle porte ci sono le elezioni: politiche e regionali, a febbraio; comunali, a maggio. Si decide di aspettare, di vedere come va. Ma quando resta fuori dal Parlamento, Di Stefano scatena l’inferno. In tanti, nel Pd, cercano di rabbonirlo, di trovare una soluzione. Parte il pressing su Nicola Zingaretti, appena eletto governatore del Lazio: nomini lui nella giunta regionale un deputato, così che “Marco” possa subentrare alla Camera.
Ma Zingaretti rifiuta. E taglia di netto. Di Stefano diventa sempre più nervoso. Nel partito gli consigliano pazienza. Nel frattempo Marino diventa sindaco di Roma. «E un giorno convoca i segretari Gasbarra e Patané in Campidoglio per confrontarsi sugli assessori da nominare.
Sulla sua agenda, a penna verde sono indicati tre nomi del Pd con tanto di numero: 1) Estella Marino, 2) Masini, 3) Ozzimo), al quattro c’è scritto, fra parentesi, “parlamentare donna”. E confida di aver pensato a Lorenza Bonaccorsi ». Ma l’abboccamento con la renziana va male. «Perciò si tenta con la Madia. Che però declina». E si arriva a Marta Leonori, «che, eletta alla Camera proprio in quota Marino, non avrebbe potuto dire di no».
La giovane ricercatrice accetta. Ma oggi dice: «Escludo nel modo più assoluto di essere stata merce di scambio: io questa cosa l’ho letta sui giornali e sono certa anche della buona fede di Marino: non si sarebbe mai prestato». E allora perché ha accettato di fare l’assessore anziché il deputato? «Ho considerato più interessante mettermi al servizio della mia città che fare il peone in un governo di coalizione», taglia corto. Sarà ora la Procura a dire come sono realmente andate le cose.
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