PURE BOSSETTI INCASTRATO DALLE INTERCETTAZIONI? “NON CONFESSO, PER LA MIA FAMIGLIA”. CIMICI IN CARCERE REGISTRANO LE CONVERSAZIONI COI DETENUTI - L’AVVOCATO: “NON CONFESSA PERCHÉ NON HA FATTO NULLA”

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Giuliana Ubbiali per il “Corriere della Sera

BOSSETTI BOSSETTI

 

Consigli, o provocazioni, di questo tenore da parte di altri detenuti a Massimo Bossetti sono negli atti dell’inchiesta sull’omicidio di Yara Gambirasio che il pm Letizia Ruggeri sta per chiudere. Ci sono finite anche le risposte che il carpentiere di Mapello avrebbe dato: «Rischierò l’ergastolo, ma non confesso per la mia famiglia», è il senso. E adesso quelle frasi, chiacchiere con altri detenuti nella sezione protetta in cui Bossetti è rinchiuso, sono finite nelle carte dell’inchiesta.

 

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Questo significa che il pm le ritiene interessanti e che il carpentiere era sotto osservazione. Non a caso in carcere erano state piazzate delle cimici (scoperte da altri detenuti) ed è stata annotata ogni sua azione e parola, compreso il modo di affrontare i nuovi indizi contro di lui che gli ha raccontato ogni volta il suo avvocato, Claudio Salvagni. È il legale, il suo ponte con il mondo esterno. Ed è lui che dice: «Non confessa, perché non ha fatto nulla. Non crolla, perché vuole dimostrare la sua innocenza».

 

Allora che cosa significa quel «non confesso per la mia famiglia?». È uno dei dettagli che il pm intende approfondire a dibattimento. Un dettaglio, appunto. Uno dei tanti che servirà a rafforzare il cuore dell’indagine, quello che riguarda invece elementi scientifici e tecnici. I principali. Il Dna dell’indagato che — l’accusa non ha dubbi — corrisponde a quello del presunto killer trovato sugli slip e sui leggings di Yara.

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Le telecamere di una ditta, di un distributore di benzina e di una banca di Brembate di Sopra che riprendono un furgone Iveco Daily identico al suo circolare attorno alla palestra per un’ora, fino a pochi minuti prima della scomparsa della tredicenne. Le fibre di quattro colori (giallo, grigio, blu e celeste) dei sedili del suo mezzo uguali a quelle trovate sui leggings e sul giubbotto della vittima. E, ancora, le ricerche dal computer di casa Bossetti con «tredicenni» e altri termini a sfondo sessuale.

 

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Per la Procura sono elementi forti, sufficienti a sostenere l’accusa in dibattimento. La difesa li attacca con l’arma del dubbio. L’avvocato Salvagni ha organizzato una conferenza stampa nel suo studio di Como per illustrare che cosa non torna alla difesa.

Con lui c’era il pool di consulenti: il medico legale Dalila Ranalletta, gli esperti informatici Giuseppe Dezzani e Paolo Dal Checco, il criminologo Ezio Denti e il professore di logica Sergio Novani. Non c’era invece Sarah Gino, medico legale specializzata nel Dna, «per via di un altro impegno», spiega Salvagni.

 

I dubbi sollevati, dunque, e le ipotesi alternative «di pari dignità di quelle della Procura». L’arma: «La lama di due millimetri e il tipo di ferite indicano che è importante, non può essere un cutter. Il killer potrebbe essere una persona che sa maneggiare le armi, per esempio qualcuno che pratica arti marziali, e sulla base di una simulazione è più convincente che sia un mancino».

 

Yara GambirasioYara Gambirasio

Il luogo dell’omicidio: «La posizione del corpo, troppo ordinato, fa dubitare che sia avvenuto nel campo. Inoltre, in corrispondenza delle ferite i vestiti non risultano tagliati, e il collo della maglietta non è sporco di sangue». Le ricerche sul computer di casa Bossetti: «Sono state prodotte in modo automatico dal computer, a seguito di altre nagivazioni di Bossetti e di sua moglie. Inoltre, si attribuisce una ricerca a Bossetti perché quel giorno non era al lavoro ma al tempo stesso un’altra in un giorno in cui risultava in cantiere».

 

Le fibre trovate sui leggings e sul giubbotto di Yara che corrispondono, secondo l’accusa, a quelle dei sedili sul furgone di Bossetti: «Dalle nostre ricerche risulta che quella tappezzeria sia stata usata per molti mezzi, anche su treni e pullman». Domanda dei giornalisti: «Ma al di là di tutto, come si spiega che il Dna dell’indagato sia stato trovato sugli indumenti della vittima?».

 

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È il cuore della battaglia. Per la Procura è un pilastro: basta il nucleare per identificare una persona. «Ma deve corrispondere al mitocondriale per fugare ogni dubbio», contesta l’avvocato.

 

Ieri la difesa ha evidenziato un passaggio della relazione di Carlo Previderè, consulente del pm che ha analizzato tracce pilifere trovate su Yara. È emersa una corrispondenza tra due reperti e il Dna mitocondriale di una delle 532 donne sottoposte al test per la ricerca della madre del killer.

 

Per gli inquirenti il dettaglio non ha rilevanza: il Dna mitocondriale può essere condiviso da persone che non hanno legami di parentela.