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Giampiero Rossi per il “Corriere della Sera”
Al nome non ha neanche pensato. «Che senso aveva? Tanto sapevo che non lo avrei tenuto. Come si fa a tenere un neonato in questa situazione?». Il bambino nel frattempo è diventato adottabile, perché non è stato riconosciuto. Ma sembra già lontano dai suoi pensieri, costantemente occupati dalle piccole necessità in un orizzonte che si estende al massimo alla giornata in corso. È nato prematuramente il 2 dicembre, all'ospedale di Melegnano, pochi chilometri a sud di Milano.
E lì è rimasto, quando lei, la madre, è tornata al suo rifugio precario alla stazione della metropolitana di San Donato, alle porte della città: tre ombrelli aperti più uno rotto, una coperta militare dal colore indefinito, un po' di cartoni, un carrello della spesa. Lì l'aspettava il suo inseparabile compagno, perché è lì che insieme vivono da aprile, indifferenti al via vai di autobus e persone, che a loro volta sembrano indifferenti alla miseria di quel giaciglio.
Lei non ha ancora 24 anni, lui ne ha 29. Vengono entrambi da un piccolo centro vicino a Cagliari, da dove sono sostanzialmente fuggiti prima della pandemia: «Niente nomi, per favore, non vogliamo che ci riconoscano». Dai loro racconti zigzaganti nel tempo e nella logica - orfani di troppi dettagli - affiorano due giovani esistenze in equilibrio instabile lungo la linea di galleggiamento, prima di scivolare nel degrado, fuori dal campo di tutti i radar sociali. Randagi e fantasmi, ma sempre insieme. «Non abbiamo documenti e quindi non possiamo fare niente», spiegano prima uno e poi l'altra.
Lui rimanendo accucciato sotto gli ombrelli-tenda, lei in piedi lì davanti, in una sorta di moto perpetuo di gambe, braccia, mani annerite e testa ondeggiante, liberando qualche sorriso quando racconta i dettagli più dolorosi. «Dovremmo andare a rifare tutto nel nostro Comune di residenza - dice la ragazza in un accento inconfondibile - ma chi ce li ha i soldi per andare fino in Sardegna? Qualcuno dice che mi pagherebbe il biglietto, ma io non credo che una persona normale poi ci paghi anche il ritorno e in Sardegna non ci vogliamo restare, perché lì non c'è proprio niente per noi».
Eppure ci sono ricordi di nonne e mamme, e poi anche loro hanno vissuto da «persone normali». O almeno così dicono i loro ricordi del periodo di permanenza in Germania. «Michael lavorava come pizzaiolo dentro una fabbrica della Volkswagen, e io facevo lavoretti in nero, stavamo bene». Ma poi arriva un buco nero, quantomeno nella memoria, perché il racconto conduce in un carcere tedesco.
«Avevamo dei debiti - taglia corto la ragazza - però lì in prigione ti danno tutto e pure un po' di soldi». Poi il foglio di via e l'approdo a Milano. «In centro ci mandavano sempre via, qui va bene e se fa troppo freddo andiamo a dormire giù in metropolitana, ma alle 5 del mattino ti cacciano. Nei dormitori non ci andiamo perché ci separano».
Le loro giornate sono senza ore: un giro in centro per «raccogliere qualche soldo», un passaggio al supermarket per comprare soprattutto birra da 9 gradi a pochi centesimi e un vermouth che costa meno di un euro e mezzo a bottiglia. «Serve per stare qui», sogghigna, e arrossisce lievemente tra un piercing e l'altro quando ammette tacitamente di usare qualche sostanza, ogni tanto: «Ma quella è roba che costa».
Sui cartoni che fanno da materasso è adagiato anche un libro: «Io leggo sempre, mi piacciono i thriller e si trovano libri gratis in giro», racconta e rievoca la sua «formazione artistica» e confida ridendo nervosamente il suo grande sogno: «Fare l'anatomopatologa, sin da piccola disegnavo benissimo i corpi umani». Ma il sorriso si fa amaro un istante dopo, quando allontana persino l'idea di rimettere in carreggiata la sua vita, che a 24 anni le sembra già persa: «Vorrei un lavoro, ma chi se la prende una come me?».
Dai ricordi ingarbugliati spunta anche un passato di sofferenza psicologica, «ero seguita dai servizi psichiatrici in Sardegna», e anche una prima gravidanza: «Ho fatto un'interruzione volontaria di gravidanza, firmò mia madre perché ero minorenne. E pure questa volta l'avrei fatta se mi fossi accorta di essere incinta - dice tutto d'un fiato - ma da tre anni non avevo più il ciclo, quindi proprio non mi sono resa conto». Quel giorno e quel bambino senza nome sembrano già lontani nelle sue parole. Il passato non ha spazio. C'è da pensare a come arrivare a sera, quando si rintaneranno insieme al riparo dei tre ombrelli.
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