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Malabarba per “Libero Quotidiano”
Proviamo a ragionare come se vivessimo in un mondo che funziona secondo il buon senso. Immaginiamo la seguente situazione. Un' azienda cerca una modella o un' hostess per una fiera della calzatura. Si rivolge a un' agenzia specializzata nell' organizzare eventi e selezionare ragazze, e fa precise richieste: «Capelli lunghi e vaporosi, taglia 42, almeno 1.65 metri di altezza, non oltre il 37 di scarpe».
Il canone estetico è chiaro: sarà spietato, ma si tratta pur sempre di un evento legato alla moda, all' immagine. E in quell' ambiente valgono certe regole. Mettiamo che, all' annuncio dell' agenzia di casting risponda un' aspirante modella che porta la taglia 46. Verrebbe respinta. Lo stesso accadrebbe se si presentasse una giovane alta un metro e cinquanta, o una col quarantadue di piede.
Chissà, magari tutte costoro protesterebbero. Direbbero che è assurdo selezionare le donne in questo modo. Ma è molto probabile che la risposta dei più - declinata nelle apposite varianti - sarebbe: «È la moda, bellezza. Quando avremo bisogno di una modella curvy ti richiameremo».
Questo se fossimo in un universo governato dalla logica. In un mondo così, un' azienda avrebbe diritto a rifiutare di assumere una hostess o una «ragazza immagine» qualora, appunto, l' immagine della ragazza in questione non fosse di suo gradimento. In un mondo sensato, un' azienda non sarebbe costretta a far lavorare per forza una donna islamica «altrimenti è discriminazione».
Eppure nell' Italia di oggi accade. Di questi tempi, l' ideologia conta più del buon senso, e ne derivano situazioni stupefacenti. Una di queste riguarda Sara Mahmoud, ragazza sui venticinque anni, nata a Milano da genitori egiziani, di fede musulmana. Nel 2013 costei ha risposto a un annuncio pubblicato sul web dall' agenzia Evolution Events, specializzata per l' appunto nel reclutare modelle e hostess. La proposta di lavoro riguardava proprio una fiera di calzature: il Micam di Milano.
Servivano ragazze di bell' aspetto, che facessero mostra di sé e distribuissero volantini.
«Il nostro cliente», spiega la titolare dell' agenzia Roberta Casetti, «aveva indicato precisi requisiti: capelli vaporosi e lunghi, taglia 42, almeno 1.65 metri di altezza, 37 di scarpe». Sara Mahmoud risponde all' annuncio e allega una foto.
Piccolo problema: essendo musulmana, indossa il velo. Dunque niente capelli lunghi e vaporosi. O, magari, li ha pure: ma non si vedono. «A quel punto abbiamo risposto alla ragazza chiedendole se fosse disponibile a togliersi il velo», dice Roberta Casetti. Per la precisione, a Sara viene inviata questa email: «Ciao Sara, mi piacerebbe farti lavorare perché sei molto carina, ma sei disponibile a togliere lo chador? Grazie».
Risposta di Sara: «Ciao, porto il velo per motivi religiosi e non sono disposta a toglierlo. Eventualmente potrei abbinarlo alla divisa». Segue ulteriore replica dell' agenzia: «Ciao Sara, immaginavo. Purtroppo i clienti non saranno mai così flessibili. Grazie comunque».
Insomma, la vicenda è abbastanza chiara. Un cliente richiede certi canoni estetici, una ragazza che non li rispetta viene respinta.
Ma ecco che entra in gioco la religione. «Noi consideravamo chiusa la questione», dice Roberta Casetti di Evolutions. «Poi abbiamo visto Sara al Tg1, al Tg5 e alle Iene». Il servizio si trova ancora sul web. Il titolo è «Vuoi il lavoro? Togli il velo».
Sara parla di discriminazione. Intervistata da Repubblica, rivendica il suo diritto a «portare il velo come prescrive la mia religione senza essere ingiustamente penalizzata sul lavoro e nella società». Il caso è diventato culturale e politico.
Tutti i giornali se ne sono occupati, più o meno replicando la stessa tesi: questa ragazza è stata ingiustamente discriminata in virtù della sua religione. Sottinteso: siamo un Paese islamofobo e razzista.
Sara, nel 2013, ha contattato uno studio di avvocati specializzato «in procedimenti contro la discriminazione razziale» e ha fatto ricorso al tribunale di Lodi. Che ha dato ragione all' agenzia Evolution. «In primo grado abbiamo vinto, ma lei ha fatto ricorso in appello», dice Roberta Casetti.
Nel frattempo, sono passati due anni. È cambiato il tribunale, ma soprattutto è cambiato il clima politico. Ed ecco il risultato: il 4 maggio la Corte d' Appello di Milano ha stabilito «il carattere discriminatorio del comportamento della società». Per i giudici milanesi, Sara ha ragione, e merita 500 euro di risarcimento. Ora, il problema non è la somma, ma il principio.
E, soprattutto, l' assurdità di tutta questa faccenda. Mario Borghezio, europarlamentare della Lega che si è preso a cuore il caso e lo ha portato all' attenzione dei media, parla di «ribaltamento della realtà», ed è difficile dargli torto. Da questa sentenza deduciamo che un' azienda privata non ha nemmeno diritto a scegliere la modella o la hostess che desidera per pubblicizzare la sua attività. Se si presenta una ragazza col velo, la deve far lavorare per forza in quanto musulmana.
Ha detto Sara nelle sue interviste che si trattava di fare «semplicemente volantinaggio».
No, si trattava di partecipare a un' evento del settore abbigliamento. L' immagine era al centro di tutto. E i requisiti erano precisi. Valgono per i ciccioni, per i nani, per gli spilungoni con i piedi enormi, per i brutti, per quelli che vogliono indossare un passamontagna, un cappello da cowboy o chissà che altro. Valgono per tutti, ma non per i musulmani.
Comunque sia, mettiamoci l' animo in pace: negli ultimi mesi abbiamo visto alcune delle maggiori case di moda del mondo far sfilare modelle velate. Non grasse, non basse, non brutte, ma col velo. Giustizia è fatta, no?
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