philip roth

A ROTH DI COLLO – LO SCRITTORE AMERICANO RACCONTA COME NACQUE IL SUO PRIMO CAPOLAVORO, “IL LAMENTO DI PORTNOY” – “COMINCIAI A SCRIVERE UN ROMANZO AUTOBIOGRAFICO BASATO SULLA MIA INFANZIA NEL NEW JERSEY. MA PIU’ MI ATTENEVO AI FATTI E A CIÒ CHE ERA RIGOROSAMENTE VERIFICABILE, PIÙ LA NARRAZIONE PERDEVA DI RISONANZA. OSCILLAVO FRA FANTASTICHERIA IPERBOLICA E DOCUMENTAZIONE REALISTICA…”

Brano tratto dal libro “Perché scrivere?” di Philip Roth

 

roth cover

Più o meno in parallelo a questo esercizio di voyeurismo rimasto senza titolo che si proponeva di ingrandire ed esaminare su uno schermo illuminato le parti intime di altre persone [il riferimento è a un monologo iniziato nel 1966. ndr ], cominciai a scrivere un romanzo autobiografico basato sulla mia infanzia nel New Jersey. Tanto per indicare il genere letterario, la prima stesura di qualche centinaio di pagine recava il titolo di Ritratto dell' artista . Restando aderente ai fatti, diminuendo il gap fra il reale e l' inventato, pensavo di tirar fuori una storia che sarebbe andata al cuore del particolare ethos di cui io sono il prodotto.

 

Ma più mi attenevo ai fatti e a ciò che era rigorosamente verificabile, più la narrazione perdeva di risonanza. Ancora una volta (per come la vedo adesso) stavo oscillando fra due estremi - da un lato la fantasticheria iperbolica e dall' altro la documentazione realistica -, e di conseguenza continuavo a tenere a distanza quello che cercava di imporsi come il mio tema, se solo glielo avessi concesso. L' avevo già definito, senza rendermene conto, nei titoli antitetici dei primi due progetti che avevo abbandonato: il dissidio fra il Caino e l' Abele del rispettabile ambiente piccolo-borghese in cui ero cresciuto - il ragazzaccio ebreo e il bravo ragazzo ebreo.

 

A un certo punto, mentre lavoravo a Ritratto dell' artista , per allargare la visuale e mitigare la monotonia inventai alcuni parenti che abitavano nell' appartamento sopra quello della famiglia - modellata sulla mia - che in teoria sarebbe stata il centro del libro. Questi «nostri» parenti del piano di sopra li chiamai Portnoy.

 

philip roth e la famiglia nel 1942

All' inizio i Portnoy erano ispirati a due o tre famiglie nelle cui case da bambino andavo a giocare e fare merenda e a volte mi fermavo a dormire. E difatti un mio vecchio amico d' infanzia, intervistato dal giornale della sua città al momento dell' uscita del romanzo, ha dichiarato che a lui la mia famiglia sembrava molto diversa dai Portnoy. «Però - ha aggiunto - magari Phil la vede in modo diverso». Che vi fosse invece una famiglia che, sì, per certi versi Phil vedeva così, e che forse a volte anche il mio amico d' infanzia vedeva così, questo ha preferito non dirlo, per motivi di discrezione filiale.

 

In realtà però la famiglia a cui i Portnoy mi sembravano più somiglianti, man mano che permettevo loro di occupare sempre più il centro del proscenio, era una famiglia di cui avevo parlato di sfuggita in un articolo pubblicato su American Judaism quattro o cinque anni prima. L' articolo era la rielaborazione di un discorso che avevo pronunciato a un simposio della Lega antidiffamazione del B' nai B' rith a Chicago nel 1961, in cui avevo attaccato l' inverosimiglianza e la stupidità, per come la vedevo io, delle immagini degli ebrei rese popolari in quel periodo dai libri di Harry Golden e Leon Uris. All' epoca la famiglia non si chiamava Portnoy, e nemmeno era il prodotto della mia immaginazione. Mi ci ero invece imbattuto, in varie forme e incarnazioni, nelle mie letture.

 

philip roth con il padre nel 1937

Ecco (con qualche taglio) quel che avevo detto al simposio del 1961: « Ci sono diversi studenti ebrei nel laboratorio di scrittura creativa che tengo alla State University of Iowa, e nel corso dell' ultimo semestre tre di loro hanno scritto dei racconti su un' infanzia ebraica […].

 

Stranamente, o forse non tanto stranamente, in ognuno di questi racconti il protagonista è un ragazzino ebreo fra i dieci e i quindici anni che a scuola prende voti eccellenti ed è sempre cortese e ben pettinato. […] Il ragazzino ebreo […] viene controllato a vista - viene controllato all' ora di andare a letto, all' ora di studiare e soprattutto all' ora dei pasti. E la persona che lo controlla è la madre. Il padre lo si vede di rado, e lui e il figlio sembrano semplici conoscenti. Il vecchio o lavora o dorme o se ne sta all' altro capo del tavolo chiuso in se stesso.

philip roth e la mamma nel 1935

 

Eppure in queste famiglie c' è un bel po' di calore umano - soprattutto se le si paragona alle famiglie dei gentili - ed è quasi tutto generato dalla madre. […] [Ma] il fuoco che riscalda può anche bruciare, o asfissiare: quel che il protagonista invidia ai gentili è l' indifferenza dei genitori, soprattutto, a quanto pare, per quel che ne consegue in fatto di opportunità sessuali. […] Mi affretto a precisare che in questi racconti le ragazze a cui l' amico conduce il giovane narratore non sono mai ebree. Le donne ebree sono madri e sorelle. La cupidigia sessuale è rivolta all' Altro».

 

roth scatenato

Ecco la mitologia popolare - trasmessami dai miei studenti - che ha influenzato la mia idea di chi avrebbero potuto diventare i Portnoy. Col senno di poi, era interessante che nella prima stesura di Ritratto dell' artista li avessi immaginati come «parenti» del piano «di sopra»: eccole, le imperfette divinità, sovradimensionate e antropomorfe, che avevano regnato sulla vita domestica del mio quartiere, la leggendaria famiglia ebraica che abitava in alto, i cui bisticci sulle patatine fritte, la frequenza in sinagoga e le shiksa erano di proporzioni olimpiche, e dai cui terrificanti lampi e fulmini casalinghi erano illuminate le fantasticherie, le paure e le aspirazioni di noi ebrei mortali che ai piani inferiori vivevamo vite meno fulgide.

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