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Antonella Baccaro per il “Corriere della Sera”
Sta tutta sulle spalle di una coraggiosa donna italiana la possibilità che il rapimento e lo stupro di sei operatrici umanitarie, lei compresa, perpetrato nel luglio del 2016 nel Sudan del Sud, da parte di alcuni soldati delle truppe governative, trovi finalmente giustizia.
Valentina, la chiameremo così per tutelarla, è stata l' unica tra i presenti nel compound alla periferia della capitale Juba, preso d' assalto, ad avere avuto il coraggio di testimoniare davanti alla Corte marziale locale.
Per farlo, ha dovuto tornare in quel Paese un anno fa, perché così è stato chiesto dal giudice che le ha negato la possibilità di deporre da remoto: «Se non avessi accettato - ci dice - il processo sarebbe stato archiviato.
Un' enorme ingiustizia non dico per me, ma per le donne che lì subiscono ogni giorno stupri dei militari. Questo è il primo processo per violenza sessuale come crimine di guerra: un precedente importante».
Ecco perché Valentina si è fatta coraggio. Ecco perché oggi chiede alla comunità internazionale, fin qui abbastanza assente, di fare pressioni affinché l' esito di quel processo, racchiuso in una busta depositata dal giudice (morto appena un mese dopo il verdetto) presso la presidenza, venga reso pubblico.
Certo, non è stato facile riavvolgere quel nastro, tornare con la mente a quel pomeriggio quando lei e i suoi colleghi hanno cominciato a sentire spari e urla.
«Ci siamo rifugiati nell' unica struttura con la porta blindata ma i soldati l' hanno forzata e sono entrati. Noi eravamo chiusi in bagno, in undici. Hanno sparato per aprirlo, gambizzando un collega, ci hanno puntato i fucili alla testa».
Qui comincia la Via Crucis di Valentina, il cui destino, come quello di altre sei donne, è stato separato da quello degli uomini, quasi subito evacuati.
Una notte di percosse, umiliazioni e violenze perpetrate da almeno cinque soldati armati.
Al mattino, abbandonate in una stanza, le ragazze si sono liberate ma i soccorsi hanno tardato a arrivare.
Tutto questo Valentina ha raccontato davanti alla Corte marziale, dove è giunta sotto la protezione dell' ambasciata italiana di Addis Abeba e di quella americana.
«Loro, i carnefici erano dietro una sbarra e mi guardavano negli occhi. In un attimo ho rivissuto tutto: la paura, il dolore. Poi mi sono fatta coraggio e li ho riconosciuti, puntando il dito su ciascuno».
Ora però tocca alla comunità internazionale aiutare Valentina a tirare fuori quella sentenza dal cassetto. Perché giustizia (si spera) sia fatta.
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