
DAGOREPORT – PUTIN NON PERDE MAI: TRUMP ESCE A PEZZI DALLA TELEFONATA CON “MAD VLAD”. AVEVA…
1. SERVIVA UN COLPEVOLE A TUTTI I COSTI: HANNO PURE CANCELLATO IL MIO ALIBI DAL PC
Paolo Berizzi per “la Repubblica”
Come si vede che a questo giro sentiva di restare impigliato. Il modo in cui ripone il blocco degli appunti nella cartelletta, la lentezza. La stessa che, sempre in udienza, accompagna il gesto flemmatico, quasi scarico, della mano destra che forse vorrebbe ghermire l’aria e invece si appoggia sul dorso del computer tenuto aperto sul banco. Alberto Stasi raccoglie le forze. Si rivolge, supplicante, ai giudici della Corte. «Non cercate a tutti i costi un colpevole condannando un innocente — li guarda negli occhi — Mi appello alle vostre coscienze, spero mi assolviate».
Sette ore dopo, bianco in volto, in piedi e non più a braccia conserte, ricurvo nel pullover verde, ascolta la sentenza che lo condanna a 16 anni per omicidio volontario. Resta immobile, una pietra. Accenna un movimento del capo verso sinistra, dove siede il decano del suo pool di avvocati.
Quel professor Giarda, ora ammutolito, che per due volte l’ha tirato fuori dalle sabbie mobili di un destino che forse attendeva solo di compiersi, laggiù in fondo. Poi afferra il giubbotto picot blu e guadagna in fretta l’uscita dell’aula, dietro la gabbia degli imputati. «Sono sconvolto da questa sentenza», dice a caldo l’ex fidanzato di Chiara.
delitto garlasco04 alberto stasi
Più tardi, lo sfogo coi difensori: «Volevano un colpevole a tutti i costi... Ma io sono innocente e andrò avanti a combattere». Con quali speranze, a questo punto, è da vedere.
Il tempo di Stasi sembra fermarsi qui, sette anni e quattro processi dopo l’omicidio che — secondo il pg Laura Barbaini — Alberto ha commesso e coperto con una «messa in scena».
Un copione quasi perfetto, disvelato solo alla fine. Sangue e cartapesta, realtà e finzione. Il commercialista per bene che entra ed esce dal corpo dell’efferato killer. Due assoluzioni e quindi, dopo il rinvio stravolgente della Cassazione, la nuova verità, scritta ieri. «Lo Stasi assassino si è mimetizzato dietro lo Stasi scopritore». Ci sono due Alberto. L’assassino che uccide e trascina il corpo di Chiara in corridoio e giù dalle scale per simulare «un incidente», e lo scopritore mimetico che trova il cadavere e balbetta ai carabinieri «la mia fidanzata forse è morta, in casa... ».
In mezzo c’è posto per un terzo Stasi. L’avvocato di se stesso. Fino all’ultimo. Ieri mattina, tre minuti dopo mezzogiorno. La presidente della Corte: «Signor Stasi, se lei ha delle dichiarazioni da fare le faccia...». Eccolo. Si alza in piedi. La voce flebile. «Sono quasi otto anni che sono sottoposto a questa pressione, al centro di questo caso. È accaduto a me e non ad altri. Perché? ». Nomina Chiara solo una volta. Per difendersi. «Si sono dimenticati che ero il suo fidanzato... Sono andati avanti a mettermi in mezzo. Sono persino andati a parlare con il mio pediatra...».
È il momento più drammatico. Lo Stasi che mimetizza e dissimula, l’esperto di carte che si è studiato tutto il processo, ogni riga di ogni perizia, mette sul tavolo la carta bagnata della disperazione. «Non voglio accusare nessuno... però mi chiedo perché hanno cancellato il mio alibi nel pc? (il riferimento è ai tempi di lavorazione della tesi di laurea: che però come alibi in realtà aveva anche retto, ndr) E perché quest’estate sono stato accusato di avere sostituito i pedali della bicicletta?».
È il primo a entrare in aula e l’ultimo a prendere la parola. Ascolta per tre ore le repliche delle parti, prende appunti, legge i file sul computer che tiene aperto a mo’ di lavagna sul banco. Gli serve perché, appena può, sussurra all’orecchio dei difensori: offre spunti, suggerimenti.
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Lui. «A mano a mano che leggevo i risultati delle evidenze scientifiche, mi convincevo che la verità non poteva non emergere. E questo mi ha dato forza». Diceva così, Stasi, dopo la prima assoluzione. Dicembre 2009. E poi, dopo l’appello del 2011: «Sono contento che un altro giudice, il secondo, abbia deciso che io non c’entro con la morte di Chiara». Gli avevano consigliato di proferire parole sfumate, di questo tenore: «Assolto, sì. Ma questa non è una vittoria. Qui non ci sono né vinti né vincitori. C’è Chiara uccisa, e ci sono io, innocente».
Così avevano deciso i giudici in primo e secondo grado. E prima ancora il gip che, dopo quattro giorni in carcere, settembre 2007, l’aveva tirato fuori. «Non è una vittoria anche perché non so nemmeno se Chiara potrà un giorno avere giustizia». Aveva scarsa fiducia nella giustizia l’avvocato di se stesso. C’era, in quelle parole, anche un presagio. Riguardava lui. «So che potrebbe non essere finita, anzi, non credo sia finita qui...».
Stasi entra nel lessico banale della vulgata come «il biondino dagli occhi di ghiaccio». La memoria collettiva tiene impressa una foto: a braccetto con la mamma di Chiara, il giorno del funerale. Lo sguardo basso, un caldo cane e lui in camicia abbottonata sui polsi. Siamo a un funerale: di che stupirsi? Di nulla se non saltasse fuori, sette anni dopo, che i carabinieri di Garlasco — uno è a processo per falsa testimonianza — si erano dimenticati di fotografare i graffi che Stasi «scopritore», accorso in caserma, aveva sull’avambraccio.
«Si sono accaniti con me perché vogliono un colpevole a tutti i costi». Intanto Alberto fa la sua vita, la vita che va oltre. Si laurea, esce con gli amici, lo fotografano con la nuova fidanzata. Prende casa e studio a Milano dove gira a testa alta con due assoluzioni sul petto. Un giorno di tre anni fa gli apparecchiano una domanda: le capita di pensare che il vero assassino è nell’ombra e forse spera nell’impunità? Risposta: «Il pensiero mi sfiora, ma fa i conti con la mia impotenza di piccolo cittadino che può solo guardare a chi avrebbe dovuto cercare il colpevole altrove».
2 - COME LA FRANZONI: COLPEVOLE MA SOLO UN PO’
Vittorio Feltri per “il Giornale”
Alberto Stasi come Annamaria Franzoni: colpevole, ma solo un po'. Dopo due sentenze assolutorie, in primo e secondo grado, il giovane commercialista di Garlasco è stato condannato a 16 anni di reclusione per avere ucciso la fidanzata Chiara Poggi, nel 2007. Siamo allibiti. La Corte d'appello di Milano ha ribaltato i giudizi precedenti pur basandosi sugli stessi indizi che altri tribunali avevano considerato insufficienti a infliggere una pena per omicidio.
Sette anni durante i quali gli investigatori hanno indagato, ordinato e vagliato perizie più o meno contraddittorie; sette anni e quattro processi per emettere una sentenza che, se sono buoni gli elementi usati dall'accusa, doveva essere pronunciata almeno cinque anni orsono. Elementi, peraltro, smontati sistematicamente dalla difesa.
C'è qualcosa di molto strano nel verdetto. Abbiamo citato la mamma di Cogne alla quale i giudici, per avere massacrato il figlioletto, rifilarono 15 anni, relativamente pochi se si tiene conto della gravità del delitto. Lo stesso discorso vale per Stasi. Sedici anni anche a lui per avere fatto fuori una ragazza nel modo noto, a sprangate. Entrambi i casi si sono chiusi senza prove e con indizi sulla cui consistenza non abbiamo dubbi solamente noi, ma anche (per Stasi) i giudici dei primi due procedimenti. Significa che la colpevolezza del giovanotto era assai difficile da accertare.
Da quando un genio modificò il codice di procedura penale, abolendo l'insufficienza di prove, il compito delle toghe è diventato arduo. A ogni costo devono pronunciarsi a favore o a sfavore dell'imputato. Tertium non datur. La formula dubitativa, cioè l'insufficienza di prove, permetteva invece una soluzione più equa, in determinate circostanze. Si dice che le sentenze si rispettano e non si discutono. Storie. Alberto Stasi è obbligato a beccarsi la condanna.
Noi invece siamo liberi di discuterla e perfino di contestarla. Ci sembra assurdo quello che è successo. Possibile che i medesimi indizi siano stati valutati allo stesso modo da due tribunali e diversamente dal terzo? Non vorremmo che l'ultimo e, forse, definitivo giudizio (se la Cassazione non avrà nulla da obiettare) si fondasse su impressioni e suggestioni piuttosto che su un autentico convincimento. Una specie di compromesso giustificato dall'esigenza di sciogliere un giallo che ha turbato l'opinione pubblica, e attorno al quale sono state organizzate decine di trasmissioni televisive, con la partecipazione di guru, criminologi, giornalisti, esperti di vario genere e talora fasulli.
La nostra è solo un'ipotesi, ma suffragata dall'osservazione della realtà. Una realtà peggiore del delitto in questione, pur salvando la pietà per Chiara, stroncata poco più che ventenne. Nell'elenco di chi patisce sofferenze indicibili va aggiunto il nome di Alberto Stasi, strattonato per lungo tempo come un cencio e alla fine candidato al carcere. Sedici anni: perché?
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