DAGOREPORT - BENVENUTI AL GRANDE RITORNO DELLA SINISTRA DI TAFAZZI! NON CI VOLEVA L’ACUME DI…
Franco Giubilei per www.lastampa.it
Lo studio filologico di grandi classici della musica pop come Revolver dei Beatles può rivelare lo spirito originario di una canzone celebre, Yellow Submarine, apparentemente così festosa da entrare anche fra i cori degli ultras allo stadio.
Lontano dall’essere la marcetta rock dal refrain irresistibile fatta apposta per imprimersi a fuoco nelle orecchie di chi la ascoltava e la ascolta, quel pezzo in realtà era stato immaginato da John Lennon in tutt’un’altra luce, molto più malinconica e personale: “In the town where I was born, No one cared, no one cared”, cantava Lennon nel primo demo.
È uno dei reperti pubblicati nella riedizione di Revolver, di prossima uscita, e non è l’unico: le discussioni sul presunto malcontento dei musicisti classici coinvolti nella registrazione delle parti di violino in Eleanor Rigby sembrano azzerate dai dialoghi amichevoli fra Paul McCartney e gli stessi musicisti.
I dissapori all’interno della band cominciarono proprio all’epoca di quell’album, ma a detta di Mc Cartney Revolver fu il disco in cui i quattro Beatles furono sé stessi come non erano mai stati, dunque il loro contributo fu massimo.
Se gli autori di questa preziosa riedizione di un capolavoro – Giles Martin e Klaus Voormann - hanno potuto lavorare su take e demo rubati in sala mentre i Fab Four suonavano in sala, permettendo l’esame della genesi di gemme fra le più preziose dei quattro di Liverpool, è grazie alla tecnologia vista all’opera in Get Back, il documentario di Steve Jackson.
Strumenti e voci sono stati estratti e inseriti nell’album senza che le caratteristiche ne siano state alterate, il che ha permesso di ricostruire l’evoluzione di canzoni nate in un modo e uscite in un altro, come insegna Yellow Submarine. Se verranno utilizzate le stesse tecniche con la stessa padronanza e passione, si può solo immaginare cosa si riuscirà a tirare fuori da altri dischi leggendari.
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