Vittorio Giacopini per "il Venerdì-la Repubblica"
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Quando era allegro, «scuoteva la testa come un pagliaccio triste» e poi era il tipo capace di dire sempre la cosa più inopportuna, e spazientire, come quando sbarcò per la prima volta a Venezia con questa sua vecchia amica, Mary McCarthy, e davanti allo spettacolo di calli e canali e campielli e antiche chiese, la prima cosa che si domandò era «perché non mettono dei motori fuoribordo sulle gondole» (e, ricorda McCarthy, «lo voleva sapere veramente»).
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Hannah Arendt, un' altra che era stata sua amica, osserva neanche troppo di sfuggita che se è «opinione risaputa» che Dwight Macdonald «cambia opinione di continuo, ciò che viene riconosciuto meno è che questa è una delle sue virtù».
L' uomo, d' altronde, era fatto così: vulcanico, esasperante, imprevedibile. In un bel racconto di Delmore Schwartz c' è un suo ritratto quasi perfetto: «Era un essere umano che possedeva uno sconfinato interesse per gli altri esseri umani e un' inesauribile energia, un' energia tanto grande da trionfare sulla realtà, se era lugubre, trasferendosi in nuove aree di frenetica attività».
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In ltalia l' abbiamo conosciuto più che altro per un testo che torna a uscire adesso, per le edizioni Piano B (Masscult e Midcult, un capolavoro) ma Macdonald è stato mille altre cose: un teorico politico irriverente, un impareggiabile scopritore di talenti, un grande critico di cinema, un cinico-romantico... un rompiscatole.
Il suo testo politico più bello, citando Marx, l' aveva intitolato The root is man, «la radice è l' uomo»: e, nel suo caso, è proprio così, non se ne scampa. La radice è l' uomo, con tutte le sue asperità, le bizzarie, gli scatti d' ira e la depressione più nera, l' allegria.
Alla morte di Heinrich Blücher - il marito di Hannah Arendt, uno che era stato compagno di lotta di Rosa Luxemburg - scrivendo alla vedova abbozza un suo autoritratto, parla di sé: «Era, tanto per cominciare, un vero anarchico né avventato né violento al punto di perdere di vista l' oggetto del contendere.
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Ed era proprio questo suo modo di arrivare al punto che ammiravo di più, perché sembrava che non prendesse neanche la mira, come fanno certi arcieri zen, ma che sparasse a casaccio, e invece non sparava affatto a caso, e il più delle volte, secondo me, faceva centro».
Dwight Macdonald era nato a New York nel 1906 da una famiglia dell' alta borghesia. Dopo la laurea, a Yale, era entrato nel giornalismo. Lavorava a Fortune, per Henry Luce, il supermagnate dell' editoria. Guadagnava parecchio. Si barcamenava - dirà più tardi - nella giungla del capitalismo.
Quando si licenziò, nel '36, la madre gli disse che era pazzo. Lui ne aveva abbastanza, in ogni caso. La politica, all' inizio, non gli interessava. All' università si considerava un letterato puro.
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L' esperienza di Fortune, e l' incontro con la prima moglie, Nancy, lentamente lo radicalizzarono. «Il mio periodo politico cominciò con i processi di Mosca», ricorderà. Si unì ai comitati per la difesa di Trotsky ma subito si fece la fame di attaccabrighe.
Diventato trotskista per una reazione emotiva, aveva ricordato ai suoi compagni le responsabilità del vecchio nell' eccidio di Kronstadt. Loro restarono allibiti, praticamente era una bestemmia, e il Grande Esule gli mandò una risposta tipica, secca, molto nel suo stile: «Tutti hanno il diritto di essere stupidi, il compagno Macdonald ne ha abusato».
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Non se la prese. Con un gruppo di amici rimise in piedi la Partisan Review. La rivista sarebbe diventata un autentico tempio della sinistra antistalinista. La guerra portò alla luce incomprensioni, rancori, divergenze. Quando la Partisan rifiuto un pezzo pacifista di Paul Goodman, un giovane collaboratore anarchico, Macdonald fu l' unico a difenderlo, e prese la porta. Sognava un' altra rivista, «informale, irrispettosa, audace».
Nel 1944 fondò ''politics'' (con la "p" minuscola, ci teneva tantissimo). Fu un' impresa culturale straordinaria. Macdonald riuscì a riunire un eccezionale gruppo di giovani intellettuali americani (Daniel Bell, Paul Goodman, Irwing Howe, Charles Wright Mills) e a introdurre in America alcune delle voci più eretiche del pensiero europeo: politics pubblicò Camus e Simone Weil, i primi scritti di Bettelheim e Ignazio Silone, Nicolò Tucci, Andrea Caffi, Orwell.
hannah arendt e heinrich blucher
La presenza di tutte queste «spore trapiantate di cultura europea» su una minuscola rivista americana non era casuale. L' altra mente di ''politics'' era uno scrittore italiano, Nicola Chiaromonte. Macdonald, che adorava il cinema, diceva che la rivista era stata a tutti gli effetti una «coproduzione italoamericana».
Grazie a Chiaromonte, quel gruppo di intellettuali newyorkesi poteva finalmente scoprire linguaggi e tradizioni sconosciute. L' italiano li vaccinò definitivamente dalle tentazioni della Storia con la S maiuscola, dai residui di dogmatismo marxista, dall' ideologia. Lui e Dwight restarono amici fino alla fine.
Hiroshima, l' assassinio di Gandhi («l' ultimo uomo politico a essere ancora una persona vera, non una maschera, una voce alla radio»), l' inizio della guerra fredda segnarono per Macdonald una svolta cruciale. Non era quella la pace che aveva sognato.
nicola chiaromonte, mary mccarthy, robert lowell.in piedi da sinistra heinrich blucher, hannah arendt, dwight mcdonald, gloria macdonald
Dopo una prima fase di stasi, rallentamento, crisi economica e creativa, politics chiuse nel '49. Macdonald si sentiva depresso, «scoraggiato». Gli amici gli rimproverarono una fuga dalla storia, la resa. Ai suoi occhi era vero il contrario.
«La storia è diventato un balletto ripetitivo - pessimi coreografi, pessimi ballerini. È la storia oggi a segnare il passo».
Tornò alla letteratura, e al giornalismo. In questa sua ritirata strategica nel "reportage socio-culturale", Cristopher Lasch vide più tardi un segno dei tempi, l' incarnazione dell' agonia della sinistra radicale.
Ma è un giudizio miope, ingeneroso. Lontano dalla politica, Macdonald scrive di cinema, società, letteratura. Era il suo modo per passare l' america al contropelo (la sua raccolta di saggi culturali si intitolerà proprio così: Against the American Grain, tradotto in italiano con Controamerica).
Una sua specialità divennero le parodie (memorabile quella dell' Hemingway di Il vecchio e il mare). Scrisse un bellissimo libro di caricature, ritratti beffardi dei padri nobili della cultura di massa, il contro-Pantheon di una società confusa e dei suoi tic.
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La sua bestia nera divenne il Midcult, questa impostura (che poi è ancora la cifra del nostro presente: date un' occhiata alle Fiere del libro, accendete la televisione per la canonica mezz' oretta di ispirato intrattenimento culturale, con Fazio o senza, sfogliatevi quasi tutte le pagine culturali dei giornali o, semplicemente, fatevi un giretto in libreria).
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A differenza dell' autentica cultura di massa, scriveva Macdonald, il Midcult esibisce patenti di nobilità, aura, pedigree. Di fatto è un metodo di lavoro che «non rinuncia a nulla»: si avvale delle potenzialità intrinseche del Masscult (i consumi, la formula a effetto, la reazione scontata) ma le ricopre «con una foglia di fico culturale», vuole «rispettare le regole dell' alta Cultura» ma le «annacqua e le rende volgari». È ammiccante, è pretenzioso e furbastro, è insinuante.
recalcati da fazio
Umberto Eco lo accuserà pochi anni dopo di snobismo: «Grava su Macdonald il sospetto che a irritarlo sia il semplice fatto della divugazione» scrive in La cultura di massa sotto accusa (poi inserito in Apocalittici e integrati e ripubblicato in questo volume). Ma è un parere affrettato, o, peggio, ottimista.
UMBERTO ECO
La "profezia" di Macdonald, ci piaccia o meno, si è avverata: «Una tiepida patina di Midcult sta ricoprendo ogni cosa. La psicoanalisi viene spiegata in modo chiaro e superficiale sui magazine più venduti... Il modernismo del Bauhaus è confluito, in forma volgarizzata, nel design degli aspirapolvere, dei tostapane, dei supermarket e delle tavole calde».
DWIGHT MACDONALD - MASSCULT MIDCULT
Alla politica in senso stretto lo avrebbero riportato soltanto il Vietnam e il movimento degli studenti negli anni sessanta. Fu in prima linea contro la guerra («non riesco a non pensarci e non riesco ad abituarmici. Cosa crediamo di fare laggiu? Per la prima volta nella mia vita mi vergogno di essere americano»).
Con il movimento, intrattenne invece un rapporto ambivalente, meno diretto. Stava senza riserve dalla parte dei «giovani ammutinati» ma non parlava sempre la loro lingua. Ne amava l' anarchismo spontaneo, la nonviolenza, ne capiva meno «l' indifferenza al passato»; la deliberata ignoranza delle radici.
In un discorso che tenne (per quanto balbuziente) davanti ai cancelli della Columbia occupata fu perentorio: «Siamo gli eredi legittimi della cultura borghese; un erede può detestare i genitori, ucciderli se crede, ma non è mai indifferente alla loro eredità».
fiera libro torino
La pietra angolare della sua posizione è ancora la "cultura", lo vedete. Non c' era alcuno snobismo nel suo discorso. Settant' anni dopo, nell' era del trionfo finale del Midcult, bisogna ammetterlo: Masscult e Midcult è un testo sinceramente preoccupato, non una riflessione sdegnata o compiaciuta sulla morte dell' arte o sulla resa dell' alta cultura nei tempi moderni.
«Non vedo cosa possa impedire al Midcult di diventare la norma della nostra cultura». È desolante, ma da vero arciere zen, ci aveva preso.