Andrea Sereni per www.corriere.it
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C’è sempre un’ombra che attraversa gli occhi di Cristiano Doni. Non va via, nera e profonda, neanche oggi, nonostante gli anni siano 48 e la tempesta sia passata. Il miglior calciatore ad aver mai vestito la maglia dell’Atalanta, recordman per gol (112 reti in 296 gare), fa una fatica enorme a parlare della sua carriera.
Non lo fa nelle poche apparizioni pubbliche, non lo fa con la famiglia. Non lo fa neppure con se stesso. Segnato per sempre dal «casino» che ha combinato. E che lo ha travolto, probabilmente anche oltre le sue reali responsabilità. Lui, amatissimo, capitano, leader, campione assoluto in una squadra normale.
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Non ricorda le partite più belle che ha giocato, segue la squadra di Gasperini da tifoso. Sognava di restare in società, divenire dirigente. Invece per dar luce alla sua seconda vita ha scelto il sole di Maiorca, dove ha aperto un chiringuito. Ma andiamo con ordine.
L’esultanza a testa alta
Nato a Roma da genitori liguri, a tre anni si trasferisce a Verona per seguire il lavoro del padre. Con il pallone tra i piedi Cristiano sa far tutto. Quando nel 1998 arriva all’Atalanta, Bergamo lo accoglie. Diventa la sua città. «Qui ho trovato tutto. Papà, per lavoro, girava molto e così anch’io mi sono ritrovato a lungo a non mettere radici. Invece, oggi, quando mi chiedono di dove sono, rispondo convinto e orgoglioso: sono di Bergamo».
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La maglia dell’Atalanta è la sua tuta da supereroe, come «il costume che trasforma Clark Kent in Superman», scherza quando torna dopo una breve parentesi alla Sampdoria. Ne diventa il miglior marcatore della storia, con un’esultanza da subito iconica: pallone in rete e corsa con mano sotto il mento, a mostrare la testa alta.
Perché? «Uno scherzo con Comandini, un gioco che si faceva da ragazzini quando uno alzava la testa e diceva “ritiro” dopo aver insultato qualcun altro», ha spiegato in seguito. Secondo alcuni invece una risposta alle prime accuse di calcioscommesse per Atalanta-Pistoiese del 2000, da cui uscì assolto.
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L’Atalanta
Quell’Atalanta è una squadra lontana dalla macchina da guerra targata Gasperini, fatica a restare in serie A. Ma Doni è di una categoria diversa: trequartista tecnico e veloce, si esalta con Vavassori, «che mi capì subito e mi sorprese» e stringe un rapporto schietto e diretto con Colantuono. Segna tanto e si guadagna un posto nella Nazionale di fenomeni che Trapattoni porta ai Mondiali del 2002 (lasciando fuori, tra gli altri, Roby Baggio).
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In Nazionale col Trap
Una selezione di stelle, quella che il Trap schiera in Corea e Giappone. Due anni prima l’Italia ha perso la finale degli Europei al golden gol contro la Francia, che ai Mondiali del 1998 ci aveva eliminato ai rigori ai quarti. In una squadra fortissima Doni è tra i convocati, maglia numero 11.
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«Ero un intruso in quel gruppo straordinario. Trapattoni mi amava e giocai titolare le prime due gare — ha raccontato in una recente intervista al Corriere —. Era un gruppo più forte rispetto a quello che quattro anni dopo avrebbe vinto in Germania: difesa mostruosa, grande centrocampo e in attacco avevamo Totti, Vieri, Inzaghi, Del Piero e Montella.
Arrivammo con vari acciacchi importanti e le varie conseguenze dello scudetto del 5 maggio. Ma stavamo crescendo gara dopo gara, e se avessimo superato l’ostacolo Corea credo che poi avrebbero fatto fatica tutti a fermarci, anche il Brasile di Ronaldo e Rivaldo». Resterà un rimpianto.
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La lite con Conte
Nel 2009, uno degli ultimi anni di carriera, a Bergamo arriva un nuovo, giovane, allenatore: Antonio Conte. Con cui Doni litiga furiosamente dopo un Livorno-Atalanta. «Mentre esce dal campo io non lo guardo, ma mi dicono che applaude ironicamente la mia decisione e dice: “Complimenti per la sostituzione”. Per me la storia finisce lì — racconta l’ex tecnico dell’Inter nella sua biografia —. Ma al rientro negli spogliatoi lui dà un pugno sulla porta.
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Così lo faccio anche io, e aggiungo: “Guarda che i cazzotti li sappiamo dare tutti”. Lui si avvicina verso di me con il chiaro intento di cercare uno scontro. “Credi di farmi paura?”, grida facendosi largo tra i compagni che cercano di trattenerlo . “E tu credi di intimorirmi con questi gesti?». Questa invece la versione di Doni, alcuni anni dopo: «Mi ha mancato di rispetto davanti a tutti e gli ho risposto a tono. Poi ci siamo chiariti e ho cercato di aiutarlo solo per il bene dell’Atalanta. Molto più di altri».
Il calcioscommesse e il carcere
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La sua avventura col pallone arriva all’epilogo la mattina del 19 dicembre 2011, quando dodici carabinieri fanno irruzione in casa sua e lo arrestano. Indagato nell’operazione «Last Bet», calcioscommesse. «Non dovevo mettere il naso in quella storia. So di aver sbagliato, non voglio passare per un santo. Ma mi fa male che poi tutto sia stato raccontato in maniera diversa: ogni cosa che dicevo veniva travisata».
Finisce in carcere, si becca tre anni e mezzo di squalifica più altri due per illecito sportivo. «Quello che mi è successo è la cosa peggiore che possa capitare a un uomo oltre alla morte. I cinque giorni in prigione sono stati i più brutti della mia vita».
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La moglie e due figli
In qualche modo, Cristiano si rialza. Lo fa grazie alla sua famiglia: la moglie Ingrid e i due figli, Giulia e Lukas, nato dopo il caos scommesse, che «ha salvato la mia vita». «Ho scelto di essere un padre presente con lui, stargli vicino, senza ovviamente trascurare l’altra che nel frattempo è diventata adolescente — ha raccontato in un’intervista a Il Tempo —.
Mi spiace non essermela goduta troppo, quando era piccola, anche a causa del calcio. Mio figlio sa che suo papà è stato calciatore, anche se non mi ha mai visto. Raramente però gli faccio vedere immagini di allora. È una cosa che non mi piace».
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Il chiringuito a Maiorca
Travolto dal vortice scommesse, sceglie Maiorca (dove aveva giocato un anno) per ripartire. Lì nel 2012 apre un locale sulla spiaggia, in società con il ristoratore bolognese Filippo Russo. «Chiringo beach», è il nome che ancora oggi porta il locale, al quale si è aggiunta una pizzeria.
Ma non ha mai vissuto a Maiorca, se non per i mesi estivi, nonostante le voci che all’epoca raccontavano di una sua fuga in Spagna: «Fu la cosa che più mi fece male tra le tante falsità che si dissero. Io non scappai. Sarebbe stato facile farlo, ma non pensavo che fosse giusto, né per me né per la mia famiglia».
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Sempre a Bergamo
Difatti Doni da Bergamo non se ne è mai andato. Oggi gestisce alcune attività in campo commerciale — oltre al chiringuito a Maiorca, il ristorante «Città dei mille» in via Martinella, a Bergamo — e immobiliare, e lavora per una società che fa scouting tra i giovani. Cammina senza problemi in centro città, i tifosi ancora lo chiamano capitano.
Ogni tanto gioca a padel, qualche volta a calcio a sette con alcuni amici ed ex compagni di squadra, tra cui pure Ariatti e Pelizzoli. Appena può va allo stadio a vedere la sua Atalanta, altrimenti la segue in tv. Ma i suoi ricordi da calciatore, ecco quelli faticano ad emergere, affogati nel buco nero che lo ha inghiottito. Cristiano è alla continua ricerca di una redenzione che forse non si concederà mai.
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«Il ricordo più vivo? Non penso a un gol o a una partita in particolare. Ho una nostalgia incredibile dell’avvicinamento allo stadio, con il pullman. C’era sempre un fiume di tifosi ad accompagnarci, e tantissimi indossavano la mia maglietta. A volte mi capita di sognare quei momenti. Emozioni impagabili».
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