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    CIAK! I SOLITI IGNOTI "ITALO-ITALIANI" - DA GIULIO RICCIARELLI (CANDIDATO ALL’OSCAR PER IL MIGLIOR FILM STRANIERO) A LUCA GUADAGNINO: LA CARICA DEI NUOVI REGISTI APPLAUDITI ALL'ESTERO E IGNORATI IN PATRIA - L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA: “ZALONE INCASSA MILIONI MA FUORI NON E' CONOSCIUTO”


     
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    Carmine Saviano per “la Repubblica”

     

    GIULIO RICCIARELLI GIULIO RICCIARELLI

    Tre numeri: quattrocento, quindici e cinquanta. Quattrocento sono i milioni che verranno messi a disposizione del Fondo Unico per il Cinema e l' Audiovisivo.

    Quindici è la percentuale che di quel fondo dovrà essere riservata ai giovani autori.

     

    Cinquanta sono gli anni passati dall' ultima legge che si occupava del nostro cinema - la nuova è stata benedetta giusto giovedì scorso davanti al premier da cinque premi Oscar: Bernardo Bertolucci, Giuseppe Tornatore, Gabriele Salvatores (in contumacia), Roberto Benigni e Paolo Sorrentino.

     

    E dunque, speriamo, spazio alle nuove leve, quelle che spesso per fare cinema nel frattempo se ne sono andate all' estero. Nomi praticamente sconosciuti in patria ma molto spesso applauditi fuori dall' Italia. Gli ultimissimi esempi? Pochi giorni fa al Sundance Festival di Robert Redford sono stati premiati Fabio Grassadonia e Antonio Piazza per la sceneggiatura di Sicilian Ghost Story, film che, anche grazie al premio, entrerà in produzione nel 2016.

    RICCIARELLI RICCIARELLI

     

    Giulio Ricciarelli, italiano naturalizzato tedesco, è stato candidato all' Oscar come miglior film straniero (cioè tedesco) per Il labirinto del silenzio. Enrico Falcone e Piero Persello, autori esordienti di The Plastic Cardboard Sonata, quindicimila euro di budget, dopo essere stati applauditi al Festival di Montreal sono stati letteralmente portati in trionfo a quello di Pune, in India.

     

    Tra i nomi appena più noti quello di Luca Guadagnino, ma solo ora che il suo A Bigger Splash presentato e mal digerito a Venezia ha avuto recensioni da urlo sulla stampa internazionale.

     

    Vero è che lui il problema dei recinti nazionali non se lo pone affatto. E neppure quello di un presunto tradimento della tradizione cinematografica italiana: «Non credo che internazionalizzare la mia opera sia stata una scelta consapevole. Anzi, ho sempre pensato che in fondo il cinema che amo non è mai riconducibile a precise identità nazionali.

    labyrinth of lies di ricciarelli labyrinth of lies di ricciarelli

     

    A proposito di Bertolucci, ero ancora un bambino quando sono stato stregato da Novecento: un cast internazionale per una storia universale anche se legata al nostro territorio. Da quel momento ho sempre pensato al cinema come a un continente senza confini », racconta il regista palermitano d' origine ma con esperienze e studi a New York. Una scelta non consapevole, certo, ma che nasce forse anche da una reazione. O no?

     

    «Tutti noi, da Paolo Sorrentino a Matteo Garrone, pur nella differenza di stili, siamo accomunati da una cosa: ci siamo formati nello stesso periodo storico e guardavamo al nostro presente cinematografico pensando che fosse un luogo devastato. Il cinema degli anni Novanta, in Italia, non tutto ma nella sua massima parte, è stato vittima di una straordinaria aggressione da parte del berlusconismo televisivo, aggressione le cui conseguenze stiamo scontando ancora oggi.

    labyrinth of lies by giulio ricciarelli labyrinth of lies by giulio ricciarelli

     

    E noi abbiamo reagito con opere minimali spinti dalla considerazione che ci si era allontanati in modo drammatico dall' eredità dei nostri maestri, dalla bellezza del nostro passato. Insomma, per noi era importante capire cosa fare del cinema e co- me farlo al di là della televisione, dei modelli linguistici e stilistici che la televisione proponeva.

     

    Certo, detto ciò è vero che c' è una distonia profondissima tra come viene valutato il cinema in Italia rispetto agli Stati Uniti, all' Inghilterra, alla Francia. Ma va così, questo è nelle cose. E per quanto mi riguarda, per quanto possa essere stato doloroso e frustrante, ho sempre cercato di fare il mio cinema. E la prendo ancora più larga: il cinema non è affatto necessario.

    GUADAGNINO GUADAGNINO

     

    Sorrido pensando ad alcuni giovani colleghi che ritengono che fare un film sia un po' come una missione. Come diceva Marco Melani, un film si può fare e si può non fare. Punto. Per il resto, come autori, abitiamo in una crasi tra arte e mercato: il bilanciamento è sempre difficile. Bisogna esporsi, rischiare».

     

    Lo ha fatto Andrea Pallaoro, che con il suo Medeas ha ricevuto numerose attestazioni di merito dalle giurie dei festival di mezzo mondo, tra cui quello di Marrakech, presieduto da Martin Scorsese: «Ma ve la immaginate l' emozione? Il mio nome pronunciato da Scorsese», ci racconta.

     

    Peccato che tanto riconoscimento «no, non mi ha spalancato nessuna porta in Italia» dove Medeas non è stato quasi per niente distribuito.

     

    Ma Pallaoro fornisce motivazioni perlopiù stilistiche: «Io me ne rendo conto, il cinema a cui sono interessato io e che intendo realizzare è un cinema difficile». Come se non lo fossero stati i film di Fellini, Pasolini, Antonioni. Pigrizia dei produttori? Pigrizia del pubblico?

    DAKOTA JOHNSON - GUADAGNINO DAKOTA JOHNSON - GUADAGNINO

     

    «Checco Zalone incassa milioni e milioni di euro e fuori non è minimamente conosciuto e film che fuori sono osannati da noi incassano ancora troppo poco. Il dislivello è evidentemente enorme» commenta Laura Bispuri, una delle giovani registe italiane di cui si parla meglio nelle rassegne internazionali, entrata anche nella lizza delle candidature italiane all'Oscar per il suo ultimo lavoro, Vergine Giurata.

     

    Netta nel giudizio: «Fino ad ora il sistema- cinema in Italia non ha aiutato molto: il mio film solo con i fondi italiani non si sarebbe mai potuto realizzare».

    luca guadagnino luca guadagnino

     

    Ma se diaspora c' è, potremmo anche provare a leggerla pensando ai nostri giovani registi come dei ragazzi che cercano solo maggiori opportunità. «Ero un talento in ufficio, un bravissimo impiegato della Camera di Commercio di Madrid.

     

    Poi me ne sono andato negli Stati Uniti alla ricerca di un lavoro qualunque, e mi sono fatto le ossa con le occupazioni più disparate: il mio cinema è fatto qui perché ero già qui», ci racconta Roberto Minervini, regista di Lousiana - The Other Side, il film - meglio: l' inchiesta cinematografica - che lo ha imposto come una delle maggiori certezze del nostro cinema. Nostro anche se fisicamente ideato e girato all' estero.

     

    LAURA BISPURI LAURA BISPURI

    Perché forse la chiave di volta sta proprio qui: i talenti scavalcano il regionalismo che a volte connota la critica e l' industria cinematografica del nostro paese. Una generazione di cittadini del mondo che vive in un tempo dove confini e steccati non hanno (non dovrebbero avere) nessuna ragion d' essere. Lontani dalle piccole e insignificanti beghe regionalistiche che affliggono il nostro cinema e, purtroppo, non solo quello.

     

    Ancora Minervini: «Sì, in fondo penso di far parte di un movimento: una scena emergente di autori che fanno un cinema molto personale, lontana dalla "domanda" del mercato. Diciamo che siamo italo-italiani: viviamo e lavoriamo fuori, e non ci preoccupiamo dei canoni, né dell' esportabilità». Fanno arte. Continuano la strada tracciata dai maestri del nostro cinema. In parte anche dai cinque premi Oscar di cui sopra. Basterebbe solo non scoprirli sempre dopo.

    PALLAORO PALLAORO

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