Alessandro Catapano per “Il Messaggero”
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Undici luglio, primo pomeriggio. Una luce bianca accecante, quasi violenta. Matteo Berrettini illuminato dagli dei del tennis, un set pari contro il re dei re, sacerdoti del tempio indignati, come osa attentare allo scettro di Novak? Click. Si è spenta la luce. Matteo si è bruciato come Icaro, il suo volo finisce in infermeria. Fitta di dolore. Da quel momento, il buio. «È stata durissima, ho passato brutti momenti, dolore fisico e dolore dell'anima».
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Matteo Berrettini, innanzitutto: ora come sta?
«Sto meglio, la gamba ha recuperato dalla lesione al quadricipite, sono pronto a ripartire, anzi sono già ripartito, in viaggio per gli Stati Uniti, rientro a Cincinnati, da domani».
L'avevamo lasciata felice e sorridente sul pullman con gli azzurri del calcio, poi la brutta notizia dell'infortunio. È stato uno choc per tutti gli sportivi, figuriamoci per lei.
«Non mi nascondo, sono stato molto male. Sono passato dalla felicità immensa, io in finale a Wimbledon poi premiato da Mattarella e Draghi, infine vincitore morale, diciamo così, insieme ai ragazzi della Nazionale che avevano vinto davvero. Insomma, dal momento più bello sono precipitato in quello più brutto. Gli infortuni fanno parte della carriera di un atleta, ma questo mi ha privato di un sogno che rincorrevo fin da ragazzo, l'Olimpiade».
Come ha reagito all'inizio?
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«Male, malissimo. È stato uno choc grandissimo, una delusione. Io le olimpiadi le sognavo, sono sempre state un obiettivo. Non poter andare mi ha fatto male, è stata una cosa difficile da digerire, ci ho messo un po' a riprendermi, sono stato parecchio giù, non riuscivo nemmeno a vedere le gare. Per giorni mi sono isolato, non ne volevo sapere di niente e nessuno. Poi, l'ho accettato, anche grazie all'aiuto del mio team, e sono andato avanti, ho voltato pagina».
Dica la verità, lei era consapevole di assumersi un rischio, a giocare quella partita.
«Sì, ero infortunato, lo sapevo, me lo sentivo e un atleta lo sa quando si fa male, anche prima della diagnosi di un medico. Ho sentito la gamba tirare in semifinale, la lesione già c'era, ma quella finale la avrei giocata anche con una gamba sola. Voi che avreste fatto? Potete biasimarmi?».
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Per carità, è entrato nella storia. E a proposito, è stata un'estate indimenticabile per lo sport italiano, la sua finale, l'Europeo, l'Olimpiade dei record. È più l'orgoglio per il risultato raggiunto o il rammarico per non essere potuto andare a Tokyo?
«Io sono uno che cerca di guardare sempre il lato positivo, nonostante tutto e nonostante quella partita non l'abbia vinta, restano la soddisfazione e l'orgoglio. L'amarezza la porterò con me per i prossimi tre anni, ma mi sono consolato con le imprese degli atleti italiani. Per fortuna sono stati giochi fantastici, i ragazzi sono stati eccezionali, quanto orgoglio ho provato nel vederli compiere quelle imprese.
A me, invece, resta l'orgoglio di aver raggiunto un traguardo storico, in finale a Wimbledon, e me lo ricorda l'affetto che ho ricevuto dalla mia città, mentre sfilavamo con i ragazzi della Nazionale sul pullman per le vie del centro, anche quel pomeriggio è stato indimenticabile. Ma quel risultato deve essere un punto di partenza per me, non di arrivo».
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L'Italia ha fatto il record di medaglie, molti dicono che lei era un candidato all'oro: quante volte ci ha pensato in questi giorni?
«Novak era il candidato al successo finale, io sicuramente sarei andato lì per vincere una medaglia, quello era l'obiettivo. Per giorni, dopo il forfait, ci ho pensato parecchio, ma adesso sento di aver superato quel momento, ora devo concentrarmi sulla stagione americana, e ripeto, Parigi non è poi così lontana».
Djokovic ha fallito il Golden Slam, e non l'ha presa benissimo.
«Ho visto le partite, ho visto le reazioni di Nole, mi è dispiaciuto, voleva a tutti i costi la medaglia, ma complimenti a Zverev, che ha fatto un grande torneo».
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Dal caso Biles alla Osaka, l'incapacità di reggere la pressione è diventata uno dei temi olimpici. Lei che ne pensa?
«Sono vicende che mi hanno colpito, questioni delicate, per mia fortuna non mi hanno mai coinvolto in prima persona, la pressione c'è, è enorme. Sono due ragazze che hanno sulle spalle molto più peso di me, hanno vinto tantissimo, è difficile giudicarle, le rispetto enormemente, siamo tutti umani, ognuno ha il diritto di dire stop».
Delle imprese azzurre quale l'ha emozionata di più?
«Sicuramente i 100 e la 4x100, e ho trepidato per il basket, i ragazzi sono tutti miei amici, hanno fatto comunque un percorso eccezionale. Però le emozioni dell'atletica sono indimenticabili».
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Lei, Jacobs, Tamberi, Tortu, gli staffettisti, i nuotatori: c'è una generazione di ventenni che può far ricco lo sport italiano?
«Sì, è bellissimo: siamo sul tetto del mondo con una generazione di tennisti, atleti, nuotatori che danno anche una prospettiva, l'idea di poter esprimersi a grandi livelli per anni, un Paese che di solito tira fuori talenti solo nel calcio, finalmente sta diventando una potenza anche negli altri sport».
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Parigi è solo tra tre anni, è già iniziata la sua rincorsa alla prossima Olimpiade?
«Ci saranno tantissimi appuntamenti, ma ovviamente l'ho messa già in agenda, sarà un obiettivo fondamentale, per me e il mio team, e statene certi, stavolta non me lo farò scappare».
Quali sono gli obiettivi di questa stagione?
«Riprendere a giocare ai livelli di Wimbledon, voglio chiudere bene, con i tornei americani, lo Us Open, le finals di Torino e la Coppa Davis a fine stagione. L'infortunio è alle spalle, sono convinto di poter riprendere esattamente da dove ho lasciato».
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