Roberto D’Agostino per “CHI”
dago con la principessa camilla di borbone
Però è bello sapere che, di questi tempi spietati, almeno un valore sopravvive: l’opera lirica, magari shocking. Abbandonarsi quindi al belcanto, ai Rigoletto e Butterfly non è più un ricettacolo di vecchietti col pannolone e di vecchie signore del circolo della canasta un po’ impolverate, con pellicciotto sulle spalle che uscivano dicendo «è stato così bello, ho pianto tanto». No, il melodramma è diventato una scelta di massima contemporaneità in un’epoca dominata dallo shock tecnologico che ha assorbito e svuotato ogni tipo di creatività artistica. Dalla pittura alla musica pop, dalla moda al design, dalla televisione al cinema, nessuna arte visiva si salva dal tifone della rivoluzione digitale. Con internet, tutto è finito nella Valle dei Templi del 900, eccetto il melo dramma dei nostri nonni.
GIACOMO PUCCINI
macerata opera festival sferisterio
E allora: come mai i bicentenari Verdi e Mozart, Puccini e Rossini sono ritornati a essere un piacere capace di produrre cultura contemporanea? Dopo periodi poco fortunati, cosa è successo all’opera lirica per trasformarsi nella più trasversale e pop delle arti? Quale forza sublime riesce a un genere di spettacolo assurdo, recitar cantando, dove, come ironizzava George Bernard Shaw, «un uomo viene pugnalato e invece di morire, canta»?
rigoletto opera di roma
Semplice: il belcanto è vispo perché è uno spettacolo che riesce a comprendere molti linguaggi contemporanei: la musica, la parola, il teatro, la scenografia, i costumi, talvolta la danza; aggiungere che la storia dell’opera lirica è costellata di tematiche politiche, erotiche, anche trasgressive, gay compresi, scritte oltre un secolo fa (Così fan tutte stilato da Lorenzo Da Ponte inaugura già lo scambismo). Con l’avvento del cinema a fine 800 si diceva che l’opera sarebbe stata decimata dalle sale, con l’esplosione della tv che sarebbe finita al cimitero, invece eccola qua: aumentano gli iscritti ai corsi nei conservatori, le platee si riempiono di ventenni. Andare a X Factor o cantare Rossini oggi paiono di nuovo due scelte condivisibili.
la sindaca virginia raggi sul red carpet del teatro dell opera (2)
Racconta Elio (delle Storie Tese), che da anni si diletta con la lirica-pop: «È una missione assurda della quale mi sono autoinvestito. Mi sono diplomato in flauto al conservatorio di Milano alla fine degli Anni 70 e l’idea mi è venuta piano piano. A un Sanremo facemmo con le Storie Tese Largo al factotum. Fece scalpore. La proponevamo come bis nei concerti. Una sera arrivò in camerino uno che mi disse: “Bellissimo l’ultimo pezzo. Ma il testo è vostro?”. Così ho avuto una sorta d’illuminazione. Bisogna ripensare a conoscere l’opera. Per molti Rossini e Verdi sono statue. Nomi di vie, neanche uomini. E invece sono state persone vive, piene di ansie come noi. Tanti ignorano che Verdi fu respinto al conservatorio e conservò fino alla morte la lettera di bocciatura. E che ha combattuto una lotta micidiale per arrivare a rappresentare le sue opere. Oggi l’istituto porta il suo nome. È una storia di fatica simile alle nostre».
Damiano Michieletto - o patrice chereau
Non solo: oggi è cambiato il modo di fare il repertorio dei Mozart e dei Donizetti perché la nuova generazione di registi ha rivoluzionato il modo di vedere l’opera - sempre meno è un omaggio alla tradizione e sempre più è un omaggio alla contemporaneità - e di conseguenza finalmente sta cambiando anche il pubblico. Se guardiamo le locandine del secondo dopoguerra, il cartellone elencava i nomi dei cantanti e il direttore d’orchestra, ma non c’era il nome del regista. Al massimo cominciava a essere inserito il direttore della scena o era più importante quasi il pittore di scena. Tutta colpa di Patrice Chéreau, uno dei grandi maestri europei. Allievo di Giorgio Strehler al Piccolo Teatro di Milano, Chéreau ha rinnovato il linguaggio del teatro lirico nel 1976 con la messa in scena dell’Anello del Nibelungo di Wagner dove la regia mirava alla lettura sostanziale del libretto, allontanandosi per sempre dalla gabbia della tradizione.
Elisir d' amore, Damiano Michieletto
È veneto, ha 43 anni, è il regista italiano del momento. Osannato, contestato, conteso dai teatri di mezzo mondo: Damiano Michieletto ha vinto perché comunica con un’estetica in linea col nostro tempo. Nel 2009 fischi per la prima al San Carlo di Napoli per il suo allestimento dell’opera mozartiana Il ratto del serraglio: uno yacht sul palco del San Carlo non si era mai visto, e una donna in topless neppure. Nello stesso anno il Roméo et Juliette di Gounod alla Fenice di Venezia vide al centro l’enorme consolle del giradischi da dove il deejay comanda le danze, e tutt’attorno il mixer, le luci stroboscopiche, le casse che sparano decibel da stadio, le cubiste seminude. Va da sé che i Capuleti sono punk metallari, ma di buona famiglia, i Montecchi dei tipacci col coltello in tasca e la bomboletta spray da graffitari.
billy budd teatro opera roma mahagonny di graham vick 4
Oggi la popolarità del melodramma non può prescindere dai grandi registi: come mai non è più necessario nessun grande cantante, icone come Caruso, Kraus, Domingo, Pavarotti e Carreras? Oggi l’opera non ha da spendere quel donnone di origine greca sbarcato dall’America in Italia nel 1947 che rispondeva (allora) al nome di Maria Kallas. E sì: tutto cominciò con Maria Callas. Dal suo modo di cantare rivoluzionario. Eugenio Montale la definì «mai eguale a se stessa». Arbasino la incoronò «voce non bella, ma drammaticissima e portamento scenico eccezionale».
callas
graham vick
Copertinato dal settimanale Time, è stata la voce tenorile più idolatrata degli Anni 80. «Quando Pavarotti nacque, Dio gli baciò le corde vocali», scrisse un critico americano. Ma altri critici, davanti a un certo sensazionalismo da Las Vegas che ha accompagnato il suo finale di carriera, hanno storto il naso:«Per diventare Pavarotti ci vuole la sua voce e ci vuole il suo agente…».
Attualmente queste straordinarie voci mancano. In compenso negli ultimi decenni è avvenuta una mutazione genetica del cantante lirico. Una trasformazione non solo d’immaginario, ma fisica e di look.
DAMIANO MICHIELETTO - “VIAGGIO A REIMS”
Trent’anni fa il modello era ancora quello di matronali madame capricciose e pachidermiche, di armadi umani con la voce modulata, il pizzetto e il capello ravvivato col gel. Oggi è cambiato tutto. Le soprano sono pin-up da calendario e i tenori bonazzi pronti per L’isola dei famosi. Ma al centro del rinnovato appeal, l’opera ha recuperato la dimensione nazionale e popolare di cui parlava Antonio Gramsci. Quel paradosso italiano per cui un’arte così sofisticata, ritualizzata, irrealistica è riuscita nei secoli a parlare a tutti, in alto e in basso, ai colti e agli ignoranti, sfondando ogni barriera sociale con la semplice forza della bellezza.
PAVAROTTI E L EX MOGLIE ADUA
Il melodramma è senza dubbio una componente fondamentale della nostra identità nazionale, tanto che si dice che l’Italia l’ha fatta Cavour mentre Verdi ha fatto gli italiani. Il Cigno di Busseto è stato un grande antropologo che ha raccontato vizi e virtù del carattere nazionale. Del resto, insieme con Michelangelo, Sofia Loren e il Papa, l’opera lirica è fra le prime cose che vengono in mente a un abitante della Terra quando si parla di Italia. Rimane un “made in Italy” che non conosce crisi. Qualsiasi expo o promozione dell’Italia all’estero ha come contorno l’allestimento di un’opera lirica o un concerto di cantanti lirici.
locandina
Altro aspetto intrigante: in un mondo virtuale in cui i giovani sono “fast” in tutto ciò che fanno, l’opera è lenta. In un mondo di telefonini, internet, tv, l’opera è incredibilmente fisica. Quando si entra in un teatro, si entra in una scatola fisica che al suo interno ha un’utopia in cui la verosimiglianza non esiste, un mondo di sogni.
La grande sfida oggi è questa: non banalizzarla dietro una divulgazione casereccia modello Bocelli o Il Volo, ma nemmeno rinchiuderla in una torre sempre meno d’avorio. E allora ben vengano l’impatto con la contemporaneità, le regie “moderne”, le dirette nei cinema. In fondo, come motteggiava George Bernad Shaw, il melodramma rimane sempre «la storia di un tenore e di un soprano che vogliono andare a letto insieme, e di un baritono che glielo impedisce».
signorini