Giancarlo Dotto per il "Corriere della Sport"
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Da ieri pomeriggio a Roma vedono la Madonna. In tutte le salse e le versioni. Un’allucinazione seria. Febbre alta, la gola secca, il respiro corto, e il Covid stavolta non c’entra. La più bizzarra? Una Vergine sulla collina di Monte Mario con la faccia di Josè Mourinho e il gesto benedicente sull’Olimpico e sulla città. Un’altra tiene in braccio un bambinello con la faccia di Totti che si mette il pollice in bocca e la guarda supplice dal basso in alto. Un’altra, in posa discinta, con la faccia da lupo, indossa un cappello a tre punte e, invece del bambinello, sfoggia uno scudo luminoso con la scritta “uno e triplete”. Cambiano i colori. Il tradizionale manto celeste su veste bianca, messo al macero, si tinge di rosso e di giallo.
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Nei laboratori segreti di Testaccio stanno già febbrilmente preparando le prime icone sincretiche tra l’uomo di Setubal, figlio di pescatori, e la Madonna di Fatima figlia di un falegname, cui lo Special One, da collega a collega, è intimamente devoto (la sua firma campeggia dal 2004 nel libro degli ospiti del santuario). Una città intera in preda alle visioni. “Non ci credo nemmeno se lo vedo” e poi “sì, lo vedo, ma non ci credo lo stesso”. Fino a ieri solo un mitomane grave (a Roma li chiamano benevolmente “cazzari”, non sapendo che siamo tutti mitomani, chi più chi meno) avrebbe potuto mettere insieme Mourinho e la Roma, salvo annegare un secondo dopo in un oceano di pernacchie.
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L’incredulità, sentimento che si accompagna allo stupore, spiega da sé il carisma ineffabile dell’uomo. Incredulità di una tifoseria intera, ma di tutto il sistema calcio Italia, attraversato da una non misurabile scossa di adrenalina che non si placa a distanza di ore. Per non parlare del circo mediatico che già si lecca dita, baffi e barba solo all’idea dello scontro titanico che sarà, Conte versus Mourinho, riedizioni dei fasti e dei vespri inglesi, ma anche dei suoi derivati. Mourinho contro Ranieri (all’epoca sprezzato per i suoi anni e le sue vicissitudini con l’inglese) e, non sia mai accada, Allegri alla Juve e Gattuso su qualunque panca sia. Per non parlare di Mancini che chiamerà o no i suoi giocatori in Nazionale. Leccornie su cui camperemo tutti almeno tre anni, si spera. Facile pronosticare.
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La sala stampa di Trigoria diventerà l’ombelico del mondo pallone. Una botta fin troppo esagerata di euforia sull’umore derelitto di una piazza che stava qui a sfogliare malinconicamente le pagine del suo ultimo incubo. Un nonsense diventato reale solo a furia d’infliggersi violenti pizzichi della serie “sogno o son desto?” e, “se sogno, ti prego, non svegliarmi”.
Il trapasso dalla faccia di Fonseca a quella di Mourinho è come precipitare di colpo dalla favola rosa all’epica più sanguinaria. Gente di cinema, i Friedkin hanno orchestrato il coniglio dal cilindro come un set hollywoodiano, studiato alla perfezione, e lo puoi vedere uno come De Laurentiis quanto stranito e ammirato allo stesso tempo, indeciso se rosicare o applaudire. Nel diluvio di messaggi estatici e telefonate dubbiose, quella di Roberto D’Agostino, incontinente romanista, che mi fa: “Oh, questo Ryan s’è ambientato bene a Roma. In quattro mesi ha portato a casa prima Diletta Leotta e poi Josè Mourinho!”.
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Sintesi ruvida, ma efficace. Di sicuro, con Mourinho questa città laica e papalina ha trovato, oltre che l’ennesimo ottavo re, il nuovo pontefice per cui delirare. Direi concepiti apposta, per amare e per farsi amare. Ma chi è Jose Mario dos Santos Félix, venuto al mondo probabilmente in una grotta di Setubal, città dell’Estremadura, nome e destino, nel cuore del Portogallo, universalmente noto come Mourinho? Chi è stato e cosa è diventato in un percorso di gloria da allenatore che ha pochi eguali nel mondo? Cosa sarà di lui nella città dei (quasi) zero titoli e del cannibalismo mediatico? Chi mangerà chi?
Per raccontarlo in una sola frase scelgo quella del pupillo Zlatan Ibrahimovic, nella sua biografia: “Per Mourinho andrei alla guerra, ucciderei”. Detto da uno già di suo alle prese con un ego faraonico, ma che sente di dover rispettare quello maniaco di questo portoghese molto, ma molto intelligente, fotogenico e non banalmente pieno di sé, addosso l’utile paranoia del credersi un messia, avendo collezionato tante prove a sostegno.
Jose Mourinho
A cominciare dall’attesa adorante delle folle. Che sia Porto o Lisbona, Londra, Milano, Madrid o Manchester. E ora anche Roma. Dove incontrerà la passione, come mai in vita sua. Già sua, anima e corpo, ancora prima di manifestarsi, con un semplice “Daje Roma!” che, detto da lui, suona come un radioso sonetto di Trilussa. Dietro e sotto il seduttore di Setubal, lo sguardo tenebra di uno che ti fissa e ti dice, anche senza dirlo, “ascoltatemi, è la vostra grande occasione”, c’è un magnifico vampiro che, al confronto, il Nosferatu di Kinski è un innocuo bambolotto. Mourinho non si prende solo il sangue dei suoi giocatori. Si prende la testa.
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La prende, la svuota dell’eventuale contenuto, ci versa come fosse una tazza il suo vino e la beve come Rosmunda fino all’ultima goccia. Per capirci? Eto’o che accetta di sfiancarsi da terzino. Visto da qui, l’esatto contrario di Fonseca. Come tutti i carismatici nati, Mourinho è condannato a non avere amici ma solo seguaci, gente disposta a morire per lui nei secoli. Il mondo per lui è una gigantesca cuccagna destinata a fornire a ripetizione conferme della sua grandezza.
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Una terra brulla e informe da fecondare con il suo sperma divino. Il suo arco temporale non supera di solito i due anni. Il primo anno feconda, il secondo conquista e va, qualche volta scappa. A Roma firmerebbero con il sangue per una trama così, disponibili già da subito, in ogni caso, da città eterna, ad amarlo perdutamente ed eternamente. La grandezza di Mou sta nella sua testa, un mix perfetto di lucidità e di delirio. Credersi “Mourinho” è la sua forza, il suo super potere. Nulla lo può scalfire, meno che mai tre anni di storia deludente. Il mito di Mou si nutre dell’adorazione della gente ma è saldamente piantato nella sua testa. A Roma non vedono l’ora di lui e lui non vede l’ora di Roma. Saranno ore memorabili.
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