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PARTE LA QUARTA STAGIONE DI “DAGO IN THE SKY” – IL TEMA DELLA PRIMA PUNTATA, “L’ARTE DEL GIOCO”, SARANNO I VIDEOGAME, OSPITI GIANLUCA MARZIANI, JAIME D’ALESSANDRO E FEDERICO ERCOLE – IL TEMA DI QUEST’ANNO È IL FUTURO, DAGO: “I TEMI DELLA TRASMISSIONE SONO ANALOGICI MA IL LORO VESTITO È DIGITALE. IL FUTURO SARÀ INTERATTIVO”
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ROBERTO D'AGOSTINO TORNA CON DAGO IN THE SKY: «BASTA UN CLIC PER CAMBIARE IL MONDO»
Marco Castoro per www.leggo.it
Datemi una leva e solleverò il mondo. «Ahò, a me basta un clic per cambiarlo il mondo». Il rinascimento digitale è in atto. Il futuro è oggi. Lo sa bene Roberto D'Agostino che si prepara a esordire domani sera su Sky Arte con la quarta stagione di Dago in The Sky. Dieci episodi costati tanto sudore ma realizzati senza spendere troppo. Per ogni puntata ci sono minimo dieci giorni di lavoro. Ma senza far lievitare i costi, come va tanto di moda oggi nei format televisivi perché è diventata una necessità. Si fanno trasmissioni lunghissime che prendono la prima e la seconda serata per ammortizzare le spese. «Ma la tv è immagine non chiacchiere - sintetizza il concetto D'Agostino la Gruber, Vespa e gli altri talk li puoi sentire pure mentre lavori, perché è radio non televisione».
dago ospite a lucci incontra funari
Dago in The Sky è un programma fuori dagli schemi. Ben fatto e costa poco. Quindi è l'esempio che si possa dare nuova linfa ai palinsesti risparmiando sul budget?
«Certo che si può. Io e la coautrice Anna Cerofolini abbiamo bruciato la sintassi e la narrazione televisiva per sostituirla con una nuova estetica. Se altri non lo fanno, e si accontentano di un talk antico, vuol dire che non hanno né idee né capacità».
Un'altra tv si può fare?
«Un programma con un tema culturale, mostrarlo con la tecnologia, ti permette di fare una tv contemporanea: basta prendere le immagini da internet e mescolarle con un montatore. Oggi è tutto istantaneo, veloce, quello che c'era prima è diventato irrilevante, ininfluente. Quando si parla di tv non serve più la categoria bella o brutta. Lo spettatore è un professionista, vede la televisione con un telefonino in mano. La tv di oggi è radiofonia perché non stimola l'occhio, cosa che invece la mia trasmissione fa».
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Dago in the Sky potrebbe andare anche in seconda serata su una rete generalista?
«Certo. Il vero razzismo è quello della tv verso il pubblico, perché dice che lo spettatore non è pronto. Invece chi ha uno smartphone in tasca è preparato».
Per cambiare i format tv ci vuole più coraggio o incoscienza?
«Ognuno sa quello che vede e ognuno vede quello che sa. I costi bassi sono dovuti al fatto che abbiamo preso da internet il materiale. Abbiamo prodotto solo le interviste. Comunque ringrazio Sky per l'opportunità che mi ha dato. Alla Rai non mi avrebbero dato tutta questa libertà».
Netflix ha rivoluzionato la tv, ma ha messo in ginocchio pure il cinema
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«Hollywood è morto. O meglio, viene inglobato, prende un'altra forma. Però diamo atto alla rivoluzione fatta da Netflix, Amazon e gli altri. Non c'è più l'idea di aspettare le 21.30 per vedere la tv. Questa abitudine appartiene a un'altra epoca. Aspettare le 20 per vedere il tiggì è ridicolo, me lo guardo quando voglio. Oggi il telespettatore ha il controllo di quello che vede, sceglie lui cosa guardare. Ognuno si costruisce il suo palinsesto».
Informazione e comunicazione stanno cambiando...
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«I giornali pagano il non aver metabolizzato per tempo la rivoluzione del web: perché devo andare a cercare un'edicola quando le notizie le ho in tasca? E poi pagano l'arroganza che hanno nel darti una linea politica che ormai i lettori considerano come un'offesa. In quanto non vogliono ideologie da seguire, anche perché non hanno neanche gli ideali. Sono in rivolta. I social sono la loro voce.
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La recensione se la fanno da soli. Non hanno bisogno degli editoriali. Io in 18 anni di Dagospia non li ho mai fatti. Il lato ideologico è stato sostituito da quello pragmatico. Tu devi proporre, il lettore sceglierà. I giornali sono antichi. Io lettore voglio i fatti, le opinioni me le faccio da solo. Del resto, Internet è populismo. Basta vedere un comizio di Salvini per rendersi conto che ci sono un quarto d'ora di chiacchiere e un'ora di selfie con la gente. Perché ognuno vuole il proprio riconoscimento».
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Però sui social si esagera con gli insulti.
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«Prima o poi si metterà a posto anche questo. Lo strumento è ancora giovane. Con le cose nuove sono tutti baldanzosi. Internet ti dà una identità attraverso l'account. I social con like e follower ti danno legittimità. Non si sta più in attesa di aspettare chi ti dia una linea editoriale, chi ti dice questo è buono e questo è cattivo. Il popolo grazie a internet - come accadde con i libri che diedero via al Rinascimento - ora ha la conoscenza. E la conoscenza è potere. Questo riconoscimento ti dà la consapevolezza della tua identità, del proprio io, della propria forza».
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