Luigi Mascheroni per il Giornale
KWADE BIENNALE
L' arte è viva, Viva l' arte. Venezia, oggi, «è» l' arte. Tutto il mondo la guarda, tutto il mondo «ci» guarda: Venezia dopo la finta pioggerellina mattutina - oggi è splendida. C' è sole, né freddo né caldo, come l' arte contemporanea in fondo. La giornata della preview della Biennale è perfetta.
Appuntamento davanti al Padiglione centrale, ai Giardini. Ore 10: la prima performance è quella di centinaia di giornalisti, fotografi, artisti, curatori... ecco il popolo della Biennale En marche!. La curatrice è la francese Christine Macel: la sua è una Biennale né di destra né di sinistra. Va oltre gli steccati, va al di là della politica e anche oltre le ideologie. Il presidente della Biennale Paolo Baratta è sulla soglia: accoglie con un abbraccio la «sua» Christine, in giacca lunga di lamè, pochette nera e scarpe da ginnastica. C' è da camminare.
Si parte: una Biennale internazionale, due sezioni geografico/ideali i Giardini e l' Arsenale -, 120 artisti provenienti da 51 Paesi, un viaggio in nove capitoli (Artisti e Libri, Gioie e Paure, Spazio, Terra, Tradizioni, degli Sciamani, Dionisiaco, dei Colori, del Tempo) corrispondenti a nove padiglioni transazionali.
Tante opere, tante riflessioni, tante idee, nessun percorso fisso. «Il visitatore non deve seguire una strada, ma il filo del racconto delle storie raccontate dagli artisti» spiega Christine Macel, rigorosa, elegante e snob come la sua Biennale. «I protagonisti sono loro. Io uso soltanto le loro opere per provare a dire che cos' è l' arte». Cioè quella cosa che trova tutte le relazioni possibili tra l' uomo e il mondo.
Il mondo della Biennale è enorme, e vorrebbe contenere tutti i mondi possibili. Il titolo l' unica cosa veramente brutta, Viva Arte Viva sembra una canzone di Ricky Martin significa tutto, tanto da non volere dire niente. Ma non dicendo niente, concettualmente, dice tutto. Venezia tracima d' arte in questi giorni, dentro e fuori la Biennale.
BLAZY
Fuori dalla Biennale l' occupazione degli alberghi è al 98%, per un business che tocca i 30 milioni di euro (il contemporaneo è un affare d' oro), mostre, feste e installazioni sono ovunque, gli yacht più sontuosi del mare sono già ormeggiati in Riva Sette Martiri, solo nei giorni della vernice gli accreditati sono 25mila e si prevedono fino a mezzo milione di visitatori da qui alla fine della manifestazione. Dentro la Biennale, infatti, c' è già un gran via vai di cronisti e di vip (il doge François Pinault, la compagna di Hollande, Julie Gayet, curatori vecchi e nuovi, da Achille Bonito Oliva a Massimiliano Gioni), c' è per fortuna poca politica, pochissimo digitale e tanto manuale (molto tessile...) e un tempo dilatato: dai Giardini al padiglione Italia in cinque ore (almeno) di girovagare stupefatto e compulsivo.
La prima parte (quella ai Giardini) è più «fredda» e teorica. La seconda, quella all' Arsenale, più scenografica e coinvolgente. Attenti ai selfie: ogni nuova Biennale diventa la mostra più fotografata della storia. Si guarda, si scatta e si posta.
Alla Biennale c' è posto per tutto, e per tutti.
Il figurativo, il concettuale, l' installazione, la provocazione. Si inizia con un grande workshop collettivo per costruire un futuro sostenibile, un laboratorio diffuso in cui gli artisti davanti al pubblico «fanno» la propria opera.
Molti sono coinvolti. La stampa, soprattutto francese, è entusiasta. Roberto D' Agostino è critico: «Sembra un centro di accoglienza richiedenti asilo. Capisco l' intenzione di raccontare l' ansia del mondo e le tragedie dell' accoglienza, delle migrazioni e delle guerre... Abbiamo la disperazione, ma ci manca Guernica. Sento il dolore, in giro. Ma non vedo l' Urlo di Munch». La gente cammina, si incrocia, non urla ma parla fitto fitto. Ecco le due più giovani artiste in mostra, le filippine Katherine Nunez e Issay Rodriguez, nate nel 1992 e nel 1991: hanno (ri)costruito il loro studio con libri di stoffa e carte lavorate all' uncinetto per ridare significato nuovo agli oggetti comuni e rivendicare il tema dell' apprendimento. Ecco lo studio-supermarket dell' arabo Hassan Sharif come resistenza al sistema commerciale e consumistico. Ci sono i 44 (splendidi) tramonti in videowall di Charles Atlas.
MAHA MALLUH BIENNALE
C' è per non farsi mancare niente, neanche la polemica dei «soliti» cattolici la grande Grotta Profunda Approfondita di Pauline Curnier Jardin che trasforma la grotta di Lourdes in una grotta a luci rosse (gli animalisti invece hanno già provveduto a presentare un esposto in difesa di due cani dobermann chiusi in una gabbia del padiglione della Germania, protagonisti della performance dell' artista Anne Imhof: temono siano soggetti a uno stress troppo forte davanti ai fotografi...).
Ci sono i disegni a matita colorata (una deliziosa enciclopedia dell' Artico) dell' artista inuit Kananginak Pootoogook. C' è l' Enciclopedia di pane della sarda Maria Lai. C' è una gigantesca tartaruga in bronzo e ceramica della brasiliana Erika Verzutti. C' è al centro del corridoio principale dell' Arsenale, all' inizio del Padiglione degli Sciamani - l' avvolgente, enorme tenda (A Sacred Place) del brasiliano Ernesto Neto: riproduce la «Cupixawa», un luogo di cerimonie spirituali degli indios dell' Amazzonia, ma è perfetto per una panoramica a 360° con l' iPhone. Dalla socializzazione alla digitalizzazione.
BIENNALE
E c' è, in fondo, poco prima di rivedere la luce sopra la Gru Armstrong Mitchell&Co., sul bacino dell' Arsenale, la stupenda Scalata al di là dei terreni cromatici dell' americana Sheila Hicks, una cascata di giganteschi coloratissimi gomitoli che riconcilia con la giocosità dell' arte... La Biennale è viva, l' arte contemporanea così così. Adesso, tutti a pranzo al ristorante dentro il Giardino delle Bombarde. Dopo si ricomincia. Per riprendere il giro c' è tempo fino al 26 di novembre. È lunga.
2. IL RITORNO DELL’ARTE DIONISIACA
Natalia Aspesi per “la Repubblica”
L' arte è più che mai sveglia, infatti il motto di questa 57° Esposizione Internazionale d' Arte è «Viva arte viva»: e forse per questo gli artisti si permettono, in fotografia, di dormire, o almeno riposare, sotto un piumino o coperta, oppure si fan rappresentare da un letto, da un divano, da una branda.
sheila hicks
E in questo caso non è ancora previsto come riuscire a dissuadere dal servirsene le centinaia di migliaia di visitatori che da sabato al 26 novembre inizieranno il viaggio dentro il labirinto dell' ultimissima estetica dell' intero mondo contemporaneo; che inizia dal Padiglione Centrale dei Giardini, dove ad invitarli subito alla sosta c' è l' opera Artist at Work, una serie di fotografie in cui il serbo Mladen Stilnovic (scomparso quest' anno), gran sostenitore della pigrizia come necessità dell' artista, appare mentre dorme nel proprio letto (1978), ma anche sulla panca di una delle sue mostre (2011).
La stessa idea di creatività, legata, come dice la curatrice Christine Macel a «quel momento di inoperosità e di disponibilità, di inerzia laboriosa e di lavoro dello spirito, di tranquillità e azione in cui appunto nasce l' opera d' arte», è condivisa da altri artisti amanti dell' otium, anche se non sprezzanti del negotium; quindi oltre al divano vuoto del viennese Franz West (defunto) ci sono pure le sue foto disteso sul lettino della sua infanzia, continuando poi per tutta la vita a interpretare la pratica della dolce accidia su divani da lui stesso concepiti.
E c' è pure la brandina che ha raccolto il sonno immaginifico di una coppia kazaka, Yelena Boroyeva e Viktor Vorobyev, il litclos bretone su cui il francese Raymond Hains (defunto) racchiudeva ciò che chiamava «banca dati mentale», e il grande pannello in cui l' americana Frances Stark si è disegnata, completa di scarpe (da ginnastica ovvio) raggomitolata su un sommier a righe.
roberto cuoghi
Non è che questa serie di sonnolenze creative immerga tutta l' Arte Viva. Infatti, sotto la cupola affrescata da Ghini l' americana Dawn Kasper, 40 anni, ha sistemato il suo studio mobile, batteria elettronica compresa, e lì vivrà per tutto il periodo della mostra; i visitatori potranno seguirla mentre lavora, o magari, in preda all' ispirazione più alata, mentre sonnecchia.
Poco dopo, altro che riposo, nello spazio occupato dallo svedese Olaf Eliasson ferve l' operosità collettiva; lui, i suoi assistenti, una quarantina di immigrati stanziati a Venezia, chiunque voglia, può mettersi ad assemblare moduli di lampada, incuriositi da una grande parete composta da scarabocchi colorati surreali che Edi Rama, attuale primo ministro albanese, un tempo pittore, ha inferto anche su documenti delle riunioni governative.
Nominata dal Presidente della Biennale Paolo Baratta per questa edizione particolarmente attesa, la curatrice Christine Macel è una bella giovane signora molto contemporanea, lunghi capelli lavati in casa, niente trucco, occhi nocciola curiosi e lucenti, scarpe bianche da ginnastica, cappottino (fa freddissimo) dorato. È curatrice capo del Centre Pompidou di Parigi, si è occupata di mostre individuali e collettive ovunque e alle passate Biennali del Padiglione Belga e poi di quello Francese.
È andata in giro per il mondo a cercare artisti giovani, artisti vecchi, artisti sconosciuti, artisti dimenticati, artisti defunti che, almeno per ora, alle grandi aste non provocherebbero cifre record, ed è anche per questo che la curatrice li ha scelti: 120 artisti da 51 paesi e ben 103 mai invitati prima alla Biennale, non (ancora) imprigionati dal mercato, e quindi capaci di verità, sincerità, sorprese, stupore, incantesimi. Ci sono poi 86 partecipazioni nazionali, tre per la prima volta, quelle di Antigua e Barbuda, le isole delle vacanze opulente, Nigeria, la nazione delle stragi e di Boko Haram, e Kiribati, un microstato insulare dell' Oceania.
orozco
Visto che forse non ci resta che l' arte e che ovunque gli artisti si moltiplicano in modo allarmante, non c' è in città museo, palazzo, campo, negozio che non accolga qualcosa che viene definita comunque arte, ma anche celebrità da grandi collezionisti, come Hirst, Boetti, Botero, Shirin Neshat, evitati con grande perizia dalla signora Macel e da tutta la Biennale, che ai visitatori vogliono offrire misteri e sorprese. Quindi, ambosessi, riuniti in nove sezioni non separate e chiamate padiglioni: installatori, performanti, assemblatori, ricamatori, webbisti, trekkisti, cancellatori, maghi, fotografi, videoisti, verniciatori, saltimbanchi, antropologi, giocolieri, cavallerizzi, muratori, giardinieri, stilisti, crittografi, cantori, subacquei, incollatori e addirittura pennellatori. Tutti illuminati dalla necessità di trasformare ogni gesto, visione o sentimento in opera che si fa arte.
Da oggi nei tre giorni della vernice e della inaugurazione, trasmessi direttamente in streaming e poi rivedibili in video, l' arte si fa spettacolo, festa, negromanzia. Nel padiglione detto degli sciamani, sotto una grande tenda di rete "olfattiva" (cumino, garofano, curcuma?) il brasiliano Ernesto Neto ospiterà certi indios amazzonici disponibili per riti di guarigione per avventurosi visitatori; e il nigeriano Jelili Atiku che espone vicino una installazione composta da acqua, terra, zucca, noci, bronzi e altro, apparirà nel Giardino delle Vergini su un cavallo bianco circondato da sei dozzine di giovani donne (possibilmente vergini, si dice con qualche incertezza) in costumi ebraici e maschere della Guinea, in una processione rituale Yaruba. Anna Halprin, una quasi centenaria venerata celebrità americana appassionata di balletti per la pace (video nel primo padiglione dell' Arsenale detto dello spazio comune), ripeterà nei giardini pubblici davanti alla Biennale la sua Planetary Dance, in cui persone di ogni età correranno (se in grado) tenendosi per mano in tre cerchi concentrici al suono di un tamburo.
macel
Sinora nessuno ha osato mettere in rilievo, per non sembrare cialtroni, che quest' anno la Biennale Arte è affidata a una donna, anche se è solo la quarta in tre delle 57 edizioni, dopo Maria de Coral e Rosa Martinez insieme nel 2005, e nel 2011 Bice Curiger nominata da Baratta; né si è osato contare gli artisti in quanto maschi, femmine, omosessuali o trans.
Eppure c' è almeno un cosiddetto padiglione, quello chiamato dionisiaco, che solo la signora Macel, cioè una donna che in quanto tale conosce molto bene la storia, le ribellioni, e i silenzi millenari delle donne, poteva rendere così provocante e profondo. In questa parte su 10 artisti 8 sono donne, soprattutto non più giovani se non defunte, e uno dei due uomini, il franco-algerino Kader Attia, è uno studioso delle voci falsate dei transgender, «emigranti nel proprio corpo che vivono nel fantasma di un suono che non esiste».
La svizzera Heidi Bucher morta 24 anni fa, negli anni '70 solidificava col lattice le sue camicie da notte, e ancora comunica con umorismo l' uso dell' intimo per inventarsi una forma di erotismo impersonale e protettivo, mentre della libanese Huguette Caland la curatrice ha scelto abiti lunghi di seta chiara su cui sono disegnati inguini e seni, una celebrazione sfacciata della nudità femminile in una Beirut allora molto conservatrice. Sotto una doccia nuda con una amica nuda, l' americana Eilee Quinlan racconta con le sue fotografie cosa sia il corpo di una quarantenne che ha avuto il secondo figlio e la difficoltà del doppio ruolo, artista e madre.
john waters
E poi, per un altro padiglione, quello dello spazio comune, ha rintracciato in Italia, con grande intuito, una grandiosa artista, morta nel 2013 a 94 anni: Maria Lai, nata e vissuta nel cuore della Sardegna agropastorale, esaltata soprattutto dall' artista-collezionista-stilista Antonio Marras, una donna silente che ha trasformato in un arte evocativa l' uso antico dei telai della sua terra, del ricamo domestico, del folklore sontuoso .
green light aerei boetti