Federico Ercole per Dagospia
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L’esperienza di un videogioco dentro un videogioco, come lo specchio che riflette lo specchio, non è una cosa nuova ed è sufficiente ricordarsi di Sword Art Online o della tetralogia contorta di .Hack per PlayStation 2, raramente ispirata ma talvolta illuminante soprattutto quando connessa agli “anime” che la completavano.
Si tratta di un espediente narrativo utile per favorire un approccio teorico al videogame, un’analisi da “dentro”. Inoltre in un gioco elettronico siamo sempre anche attori e questo coinvolgimento moltiplica le riflessioni sul significato di partecipare alla simulazione numerica coerente di un altrove.
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Ecco dunque CrossCode di Radical Fish Games, già uscito nel 2018 per PC, e ora pubblicato per Nintendo Switch, PlayStation 4 e XBox One, un videogame che ci precipita all’interno di un altro gioco con rara intensità, dimostrandosi rivelatorio e persino critico verso lo stesso panorama che illustra, ovvero quello degli MMO, i Massive Multplayer Online.
Così che si partecipa a due narrazioni parallele, quella pedissequa e banale della sceneggiatura di CrossWorld, l’MMO nel cui mondo giochiamo, e quella complessa e occulta del “codice” sul quale si regge. La superficie e la profondità.
L’ILLUSIONE DEL MULTIPLAYER
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CrossCode si svolge dentro la simulazione di un gioco online ma è un’esperienza per giocatore singolo. Quindi i personaggi che vi incontreremo, anche se ispirati in maniera efficace ai luoghi comuni di quelli che si incontrano in rete, sono ovviamente creature solo digitali.
Eppure è forte la sensazione di essere davvero connessi e di interagire con altri giocatori, realizzando che spesso il carattere costruito dal partecipante ad un MMO è più una parodia del se’ che una rappresentazione favolosa.
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Interpretiamo Lea, una giocatrice che ha perso la memoria e la parola, inserita nel suo avatar affinché possa ritrovare l’originale personalità e i ricordi perduti.
Così, lentamente, riveleremo le ombre tra la trama del gioco, esperendo una narrazione che si rifà alle intuizioni di William Gibson, Dan Simmons e Philip K. Dick.
Così universi si sovrappongono a universi, intelligenze a intelligenze, artificio e persona, corpi contro menti e viceversa per il dominio di “volontà e rappresentazione”.
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E nell’illusione del multiplayer, nella sua evidente dimensione fittizia, nella nostra solitudine di giocatori, ci chiediamo invece, rabbrividendo a questa irrazionale suggestione, se non ci sia qualcun altro che sta giocando con noi, non un essere umano ma comunque una “presenza” che ci spia dietro i numeri. Un altro gioco dentro al gioco.
MERAVIGLIE A 16 BIT
CrossCode possiede una grafica retrò a 16 bit, ovvero quella di tante opere appartenenti all’era del Super Nes e i suoi panorami isometrici tendono a corrispondere soprattutto a Secret of Mana. Si tratta di un gioco di ruolo classico solo in superficie, orientato tuttavia verso un’azione talvolta sfrenata, fatta di veloci e dinamici scontri all’arma bianca e nel contempo da fuoco.
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Migliorando le statistiche di Lea i combattimenti si fanno sempre più spettacolari e mossi, esplosioni di linee e colori; e diventano anche più difficili, talvolta punitivi se non si possiedono l’abilità e i potenziamenti adeguati per intraprenderli.
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Ma gli autori, augurandosi che CrossCode fosse godibile dal pubblico più ampio possibile, hanno implementato una modalità “assistita” che non solo facilità l’attività marziale ma i numerosi enigmi ambientali che segmentano l’esplorazione. Quindi CrossCode è un esperienza inclusiva, un videogame per pubblici diversi con varie esigenze ludiche. È necessario comunque conoscere -e in maniera non superficiale- la lingua inglese, perché CrossCode non è tradotto in italiano e si devono leggere centinaia di dialoghi.
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Da giocare con attenzione, senza trascurare le tante missioni secondarie anche quando possono tendere alla ripetizione del proprio modello, CrossCode è un’esperienza longeva, da distillare e meditare anche fuori dal gioco. Gratificante per lo sguardo nel suo riuscito omaggio estetico al passato, CrossCode è più che moderno nel suo contenuto, nelle sue musiche inconsistenti solo quando vogliono esserlo per dipingere la quotidianità ludica più trita da MMO, altrimenti sperimentali e suggestive, significative, una narrazione incrociata come quella del gioco (o dei giochi) che accompagnano.
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Un videogame che ci illude di provenire dal passato con la sua forma di pochi, bellissimi bit ma che specula sul presente e soprattutto sul futuro, come la migliore narrativa d’anticipazione.
Una sfaccettata gemma videoludica a solo 20 euro da non perdere nel sovraffollato mercato degli shop online (arriverà a fine agosto anche una copia fisica) o nell’ansia accecante dell’attesa tecno-feticista di una prossima e ancora troppo nebulosa generazione di videogame.
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