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Federico Ercole per Dagospia
Cocoon, non il film diretto da Ron Howard del 1985, quello con Steve Guttemberg, Brian Dennehy e Don Ameche dove ci sono i bozzoli extraterrestri che ringiovaniscono gli ospiti di una casa di cura, ma un videogioco quasi indicibile, per il piano ermetismo del suo immaginario, uscito per Nintendo Switch, Playstation, Microsoft Windows e Xbox, dove è disponibile senza spese aggiuntive per gli abbonati al sempre più ricco e ormai imprescindibile, anche quando discutibile, Game Pass.
Cocoon, ovvero “bozzolo”, l’involucro protettivo di alcuni insetti dove ha luogo la metamorfosi, è un’opera di fantascienza purissima e aliena di Jeppe Carlsen, colui che ideò i modi di giocare in due capolavori come Limbo e Inside. SI tratta di un videogame che si esprime solo attraverso l’immagine e l’attività ludica sempre funzionale al panorama, una strana, straniante e indimenticabile avventura enigmatica che non esclude tuttavia rari ma avvincenti e originali incontri con grandi nemici; un videogame che dura poco più di cinque ore, quindi un’esperienza sintetica quanto fitta di possibili significati, di suggestioni che alimentano ipotesi e mai tesi.
La densità di Cocoon è soprattutto giocosa, un giocare perpetuo come un moto, ma del pensiero, un movimento che non si interrompe nell’andamento riflessivo e contemplativo dell’avventura ma da questo acquista l’energia.
Le idee su cui si fonda la ludica di Cocoon sono poche e minimali e non hanno bisogno di essere introdotte da nessun “tutorial”, si usa la leva direzionale del controller e un unico tasto, ma da queste intuizioni nelle poche ore di evoluzione del gioco germoglia una selva di modalità mai tediose anche quando ripetute. E’ proprio la sua sintesi, una concisione davvero sublime, ad essere un valore persino poetico di Cocoon e tra i tanti (grandi) giochi dalla lunghezza smisurata di questo periodo travolgente risulta necessaria, come un delizioso sorbetto al limone tra succulente ma pesantissime fritture.
UN INSETTO ATLANTICO
Giochiamo nel carapace di una specie di insetto, simile ad un maggiolino, che si muove per gli spazi meccanici ed organici di lande remote, non umane e quasi vuote di vita, reggendo sulle sue spalle, come un Atlante, un sfera che contiene un altro mondo alle quli se ne aggiungeranno altre, ognuna con il suo bioma. Mondi, dentro mondi per i quali viaggeremo in quella che Giulia Martino su Multiplayer ha definito con ispirazione una “danza”. “Una danza tra i mondi”, bellissimo e così giusto.
Visiteremo spazi paludosi, quasi desertici ma non privi di una vegetazione che decora l’aridità, cave muffose e immense, metalliche strutture meccaniche su abissi insondabili. Viaggiare tra questi spazi è un’attività che non richiede virtuosismo digitale, qualche volta solo velocità d’esecuzione, ma pensiero. I continui enigmi ambientali non sono tuttavia così complessi e per risolverli è necessaria più che di un ragionamento una meditazione.
I “rompicapo” non risultano quindi astrusi se non, ma davvero poco, in due o tre situazioni. Gli scontri con i “boss” dal disegno e le movenze aliene così suggestive, richiedono una riflessione tattica e la precisione del movimento; si fallisce dopo il primo errore ma la ripetizione della battaglia è quasi immediata e non c’è mai frustrazione, solo un processo di miglioramento che dopo pochi minuti porta al successo.
Se l’illustrazione degli spazi di Cocoon è meravigliante nella sua aliena concretezza, lo è anche il panorama sonoro composto da rare musiche che solo con i “boss” assumono talvolta una ritmica carpenteriana ma perlopiù si mimetizzano con i suoni della natura e dell’innaturale, in un tessuto che riesce a restituire, pur risuonando, l’idea del silenzio, un “sound of silence” non di Simon & Garfunkel ma di un compositore di un altro universo.
NON SERVONO PAROLE
Cocoon non è certo l’unico gioco senza parole, senza una significato esplicito e una narrazione che dipenda solo dalle ambientazioni e dalle azioni del giocatore, tuttavia qui quest’assenza è un pregio ulteriore se si considera l’ambito fantascientifico, perché il videogioco risulta così in una straordinaria esperienza nell’altrove che è così difficile da raccontare quanto immediata nel includerci nella sua estraneità.
La fantascienza di Cocoon va nella direzione opposta di quella di un videogame come Starfield, sebbene ciò non sia da intendere in ‘accezione negativa per la colossale space-opera di Bethesda , quest’ultimo un videogame assai più definibile ed esprimibile quando il primo è invece così difficile da esprimere, spiegare, chiarire; tanto che sorge spontaneo domandarsi con quale virtuosismo dialettico o dimostrativo Jeppe Carlsen sia riuscito a comunicare le sue idee così semplici, solo quando attuate o giocate, nel momento in cui ha dovuto descrivere per la prima volta la sua singolare e geniale idea di videogioco.
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