Federico Ercole per Dagospia
fallout
C’è una scena di pochi minuti che risulta esemplare per connettere l’immagine della serie televisiva ispirata al celeberrimo Fallout di Bethesda (soprattutto al terzo, al quarto episodio e all’online “76”) a quella del videogioco; momenti che risultano indicativi e teorici per confutare i luoghi comuni che ancora riducono a materia triviale il discorso critico sul rapporto tra i modi della visione di cinema/videogioco/televisione. Si tratta di quando Lucy, interpretata da una strepitosa Ella Purnell, esce dall’illusorio rifugio del Vault per cominciare il suo viaggio attraverso le californiane terre selvagge e contaminate.
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In quel momento vediamo la realtà di un mondo devastato dalle bombe nucleari più di un secolo addietro attraverso gli occhi della donna, in prima persona, e quest’immagine così videoludica parrebbe dilungarsi, si desidera che perduri, ci illudiamo che si prolunghi fino a quando il montaggio non la interrompe, negando la fluviale tempistica delle soggettive, dei piani sequenza “infiniti” del videogioco. Ecco qui il videogame si adatta alla televisione e ai modelli di un cinema sempre più da questa ispirato, rompe quella magia sperimentale anche se funzionale che invece lo contraddistingue nel portare all’estremo le possibilità inespresse e inesprimibili, se non nell’underground, del cinema.
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E si intuisce così che se la televisione e il cinema contemporaneo adattassero davvero il loro linguaggio al videogioco ci troveremmo di fronte a opere dalle durate iperboliche, dai piani sequenza che si eternano, dall’assenza quasi totale di montaggio, insomma a qualcosa di più simile all’Empire State Building di Andy Warhol o alla Regione Centrale di Michael Snow di quello che per ignoranza si ritiene sia il cinema condannato alla contaminazione con questo: scene di pochi secondi in un “Découpage” frenetico, dialoghi elementari, nessuna riflessione sullo spazio e sul tempo. Sciocchezze davvero fuorvianti.
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Sebbene la serie di Fallout disponibile su Prime Video sia appunto televisione, ottima televisione ispirata al videogame come lo è anche quella di The Last of Us, c’è assai più cinema e “cinemi” possibili in un’ora di gioco che in tutte le otto notevoli puntate che la compongono e malgrado la fotografia eccellente, ma spesso troppo oscurata e poco contemplabile a causa della velocità del montaggio, di Stuart Drybugh che ha lavorato con Jane Campion per Un Angelo alla mia Tavola, Lezioni di Piano, Ritratto di Signora e con altri registi di valore come Bob Rafelson e John Sayles.
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TERRE DESOLATE
Scritta e parzialmente diretta da Jonathan Nolan (fratello di Cristopher), già autore delle sceneggiature di Memento, The Prestige, Il Cavaliere Oscuro, Interstellar e per la televisione di Westworld e del sottovaluto Person of Interest, Fallout è comunque una serie strepitosa, mai banale, politica e spettacolare che almeno per la sua scrittura restituisce con arte ciò chi i videogiochi di Bethesda vogliono raccontare e significare.
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Il mondo post-atomico di Fallout, dove si immagina che la Bomba sia esplosa negli anni cinquanta circa del 900, è un contenitore di fantascienza che trascorre da Dick delle Cronache del Dopobomba a quella filmica di Mad Max, ma non solo perché alla science-fiction si innesta l’horror, la commedia, il western.
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Nella sua forma davvero mutante trovano spazio ordini cavallereschi mistici che sarebbero Metal se l’Heavy Metal ci fosse già stato negli anni ‘50; società sotterranee e conservatrici di vittime, carnefici e cavie insieme; aberrazioni del maccartismo, del capitalismo e del militarismo; cowboy “zombie” quasi immortali; creature mostruose; esseri umani che sono prede e predatori. In questo contesto narrativo e sociale assai fertile, il mostro di un mostro, ovvero dell’America paranoica di quegli anni proiettata in un futuro di non- morte, la cronaca dei personaggi è inserita con un’arte della coralità quasi romanzesca più che televisiva , così che il succedersi delle situazioni e delle narrazioni risulta in un’opera omogenea la cui serialità è persino illusoria.
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UN FORMIDABILE TRIO
I tre protagonisti di Fallout sono, è innegabile, straordinari; senza trascurare personaggi (non troppo) secondari interpretati dall’icona lynchana Kyle MacLachlan, Michael Emerson l’indimenticabile Benjamin Linus di Lost e Sarita Choudhury vista nei primi film di Mira Nair.
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C’è la sopra citata Lucy di Ella Purnell che attraversa tutta l’opera “salendo d livello” con una straordinaria tenerezza, eleganza e durezza; lo scudiero/cavaliere della confraternita d’acciaio timido e ingenuo ma assai buono chiamato Maximus e un grandissimo quanto inquietante Walton Goggins nel ruolo di una ex star della televisione diventata un cacciatore di taglie longevo e orribilmente mutante.
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Questo terzetto (con tutti gli altri personaggi) dimostra di credere nei loro personaggi, di amarli e per questo non lasciano indifferenti chi li guarda, alimentando nel pubblico l’empatia, cosa assai rara nei “telefilm” di oggi dove spesso, anche in quelli più blasonati come Il Problema dei tre Corpi, gli attori alimentano una distanza, addirittura il disinteresse, forse proprio per una mancanza di passione per i loro ruoli.
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Fallout sarebbe da vedere tutta di seguito in una folle visione notturna di oltre otto ore –è saggia la decisione di Prime di pubblicarla in maniera integrale- per sprofondare nel suo mondo in un’illusione critica e consapevole ma al contempo smarrita e divertita, quella di essere in un (video)gioco di ruolo, di avere la possibilità di intervenire negli eventi perché ne facciamo parte. Dolcemente persi con tristezza in un altrove dal quale sarà inevitabile risvegliarsi per spalancare gli occhi in un presente dove questa serie sembra il prologo di un futuro sempre più possibile, invece che un’appassionante distopia fantascientifica.
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