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Federico Ercole per Dagospia
Videogiocando si possiedono corpi e non importa che siano solo numerici, inerti contenitori di pixel da indemoniare con la nostra volontà affinché si muovano soprattutto per uccidere altre coscienze artificiali o possedute anche esse da un’ anima proveniente dalla rete. Invadendo questi corpi numerici non solo siamo vettori di una ludica necessità omicida, ma loro carnefici nella ripetizione suicida del Game Over.
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Così Slitterhead di Bokeh Game Studio, la nuova opera di Keiichiro Toyama (inventore di Silent Hill, Forbidden Siren e Gravity Rush) è una profonda allegoria dell’attività videoludica, poiché nel ruolo spirituale di un’entità scorporata costringe chi gioca a possedere un corpo dopo l’altro per sconfiggere bizzarri mostri, con il tragico esito di causare spesso la morte di quel malcapitato vascello per poi abbandonare il cadavere e controllare un altro “vivente”. Un videogioco sul videogioco, sulle sue contraddizioni, la sua grandezza e i suoi dolori che attraverso l’orrore di un horror serie Z ci muove a riflessioni amare sul perché si continua a uccidere e a farsi uccidere in un ambito virtuale.
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Dispiace che malgrado le sue premesse Slitterhead tenda a crollare come un Atlante sconfitto sotto il peso delle sue ambizioni, annichilito da un capitale produttivo insufficiente a realizzare appieno il suo valore implicito. Tuttavia si tratta di un’opera che sebbene possa irritare con il suo sistema di combattimento spesso impreciso e farraginoso, ad annoiare con le sue ripetizioni e con una grafica che appare obsoleta anche se brillante di una sua sconcia, diroccata poesia, possiede un fascino contorto che latita in tante altre grandi produzioni e che va oltre la sua allegoria violenta quanto illuminante. La bellissima bruttezza di una canzone punk suonata da una band di strafatti o del cinema sporco quanto grandioso di Frank Henenlotter o del primo Brian Yuzna.
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Slitterhead per Playstation, Xbox e PC, è un contenitore di idee e visioni il cui valore è cosa postuma, brillerà forse in futuro quando oltre alle (comunque pertinenti) critiche sui suoi difetti evidenziate da tanta stampa specialistica emergerà quella sua sgraziata, mal riuscita ma brillante magnificenza. Inoltre la colonna sonora è di Akira Yamaoka, compositore storico di Silent Hill, compreso il recente rifacimento del secondo episodio, e si tratta di una partitura esemplare.
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BENVENUTI A KOWLOON
Splitterhead si svolge a Kowloon, Hong Kong, proprio prima della sua demolizione, quindi attorno all’inizio degli anni ’90, quando i suoi labirintici vicoli e le sue case popolari erano sul punto di essere abbattuti e sostituiti dai grattacieli. Anche il troppo poco ricordato Stranglehold di John Woo ci mostrava il crepuscolo di quest’area metropolitana palpitante non solo di vita criminale e prostituzione ma di una vitalità popolare.
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Il gioco comincia con un notevole filmato introduttivo che ci fa levitare per Kowloon, la sua congestione e la sua frenesia fino a quando il piano sequenza si interrompe mostrandoci un cadavere dilaniato, dall’orbita vuota. E qui ecco che l’inquadratura cambia ancora, diventando la soggettiva impossibile di un occhio che non c’è più, un momento della visione straordinario! D’altronde Toyama già in Forbidden Siren indusse a giocare con lo sguardo e i punti di vista, dando la possibilità di vedere ciò che guardavano i mostri, fino alla conseguenza estrema di farci mirare inermi la “nostra morte” dagli occhi del carnefice. Toyama è un teorico dello spazio e della visione nel videogioco.
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Impersoniamo un’entità immemore, cosciente solo che creature abominevoli dalle forme ittiche e di insetti stanno invadendo Kowloon penetrando nel corpo delle loro vittime, una volta divorato il loro cervello. Così ci si muove da un corpo all’altro, navigando gli spazi in maniera nuova e appassionante, sebbene dolorosa, perché appunto gli ospiti inconsapevoli muoiono sia durante i combattimenti, nei quali lo slittamento continuo da una persona all’altra ricorda il terzo Parasite Eve uscito per PSP, oppure solo per necessità, come quando si fa cadere un poveraccio dalla cima di un edificio per seguire un obiettivo e lo si abbandona prima che torni in se stesso e si sfracelli al suolo.
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Troveremo poi degli umani “unici” da possedere che non possono morire, protagonisti di un gioco che si fa vieppiù corale: un’attrice alle prime armi, una prostituta, un medico, una cuoca, un ragazzino, un senza tetto... Con questi, dopo ogni missione, si possono intrattenere interessanti e appaganti conversazioni quasi lynchane. Costoro possono anche essere potenziati.
Le missioni sono spesso simili e ci riportano sovente in luoghi già visitati, perché l’entità può andare anche indietro nel tempo per alterare gli eventi.
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Ci sono missioni di indagine, di inseguimento sfrenato, di lotta e di segretezza con una modalità “stealth” che funziona soprattutto quando ci obbliga a cercare altri corpi da possedere. Quando la noia sta per sopraggiungere, ecco comunque un colpo di scena, un preziosismo Della regia, un dialogo sorprendente. Così risulta assai difficile abbandonare Slitterhead.
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SESSO E SANGUE
Slitterhead è un gioco molto violento ed esplicito, anche nella rappresentazione del sesso e nei dialoghi a questo riferiti: durante una memorabile e disperata deriva in un bordello, origliando, si può sentire una prostituta rifiutare un rapporto anale, ad esempio, o vederne una con le brache calate seduta sul cesso di uno squallidissimo bagno dove ronzano le mosche e giacciono sul suo sozzo pavimento fogli arrotolati di carta igienica usata.
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C’è del voyeurismo in tutto questo, ma non compiacimento, solo l’illustrazione della miseria, l’osservazione di esistenze che si consumano nel carcere senza speranza di evasione dell’avvilimento. Slitterhead è un gioco politico oltre che teorico, sul popolo abusato, sugli ultimi.
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L’ultima opera di Toyama è un capolavoro grottesco e fallimentare, ma comunque un’opera d’arte che non deve essere valutata solo con gli strumenti di una critica videoludica che potrebbe smarrire gli indizi della sua unicità, le vie contorte che celano la sua oscena e traballante bellezza.
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