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Federico Ercole per Dagospia
Pensare e quindi essere dentro e fuori il videogioco, l’uno e i cento simulacri avvinti in un legame biunivoco, (super)marionette e burattinai al contempo. Il videogioco un tempo elemento marginale di una cultura alta quanto cadente ma non decadente, è da qualche tempo materia di studio, di analisi e di speculazioni filosofiche, sebbene nelle roccaforti di una ottusa conservazione, nei luoghi vetusti di una tradizione ludica ferma alla tombola, questo sia ancora disprezzato e soprattutto sconosciuto.
Tuttavia “il linguaggio del videogame è il linguaggio del nostro mondo”, sostiene Tommaso Ariemma nel suo illuminante “Filosofia del Gaming” (edizioni Tlon), un trattato che trascorre da Talete a Friedrich Nietzsche per trovare suggestive corrispondenze tra sistemi di pensiero e attività videoludiche.
la filosofia del gaming di tommaso ariemma
Ho posto qualche domanda a Tommaso Ariemma, docente di Estetica e Sociologia dell’Arte presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce, autore inoltre di altri esemplari testi pop-filosofici come “La Filosofia spiegata con le serie TV” (Mondadori), “Filosofia degli anni ‘80” (Il Melangolo), “Platone Showrunner” (Dino Audino).
I primi ricordi videoludici?
Sono cresciuto con il Commodore 64 e con i suoi indimenticabili giochi, come molti ragazzi nati negli anni Ottanta. Al Commodore devo la straordinaria esperienza della visione del codice alla base dei videogiochi. Un po’ come Neo di Matrix, chi aveva un Commodore sapeva che dietro al gioco e alle immagini c’era il linguaggio della programmazione, perché poteva accedervi fino a modificarlo. Un’esperienza che sarebbe diventata sempre più rara.
“Viventi la nostra morte, morenti la nostra vita”, si usa attribuire a Eraclito. Non è questa l’esperienza del videogioco che annulla il presente in un altrove e ci pone in mille possibili estinzioni con il Game Over?
Assolutamente sì, ed è significativo che una frase di Eraclito si adatti così bene all’esperienza del videogioco, perché – è questa la mia tesi– il videogioco non è che uno dei modi più compiuti di realizzare la tradizione filosofica, a partire dalla sua origine greca che ha pensato insieme la centralità del gioco e la centralità della visione. Qualcosa come un “video-gioco” è possibile solo grazie a ciò che i Greci hanno inventato. Rintracciare questa origine del videogioco permette di guardare in modo nuovo la stessa storia della filosofia, troppo spesso pensata distinta dall’attività ludica. Del resto, è questo l’effetto più interessante di quella corrente di pensiero che oggi prende il nome di “pop filosofia”: se la filosofia guarda nel fenomeno pop, anche quest’ultimo guarderà nella filosofia.
Non sarebbe ora il inventare un nuovo nome per “videogioco”, avresti qualche idea?
Oggi c’è un grande dibattito sul termine “videogioco”, perché sotto questo nome si raccolgono opere molto diverse tra di loro dagli open world come Red Dead Redemption 2 alle Visual Novel come DokiDokiLiterature Club. Confesso di tenere invece molto a questa parola, per le ragioni dette prima. L’espressione videogioco ci ricorda quella dimensione paradossale che tiene insieme attività spesso considerate incompatibili: vedere e partecipare. Il videogioco ci ricorda che nessuna “contemplazione” è davvero inattiva.
Non è stato Wagner, idealizzando, concettualizzando e tentando l’Opera d’Arte Totale a profetizzare l’idea del videogioco, laddove confluiscono difformi e innumerevoli pratiche artistiche?
Sì, con l’importante differenza che per Wagner lo spettatore resta spettatore puro, addirittura oscurato (è Wagner il primo a sfruttare il buio in sala). Certo, in tal modo l’attenzione è massima, ma la partecipazione non è paragonabile a quella di un giocatore. Da sempre le opere d’arte tendono a incorporare forme artistiche diverse, ma solo nel videogioco questa incorporazione diventa più intensa, nella misura in cui più che Opera d’Arte Totale il videogioco è un’Opera d’Arte Mondo. La totalità è, infatti, al tempo stesso, più e meno del “mondo”, perché una totalità è pensata come data e compiuta, mentre nell’idea di mondo è sempre presente un’aggiunta, un inesplorato da ricercare.
Un esempio di “cattiva” filosofia nel videogioco, se è ipotizzabile una cattiva filosofia?
Non amo, come tanti, la banalizzazione: della violenza come di qualsiasi altra tematica. Ogni videogioco ha più o meno una filosofia implicita, una visione del mondo che veicola, un invito all’azione, ma se non c’è abbastanza pensiero, o un’occasione di riflessione, rischia di essere solo un gioco, senza alcuna visione, dove per visione va intesa proprio quella inventata da Platone, ovvero quella dell’anima. Doom, ad esempio, è stato un videogioco spartiacque, ma aveva una filosofia abbastanza elementare, cioè pessima: spara, uccidi e andrai avanti.
Siamo al crepuscolo del videogioco?
Forse sì, ed è paradossale, visto che mai come in questi anni abbiamo avuto autentici capolavori come The Last of Us, Death Stranding, o il più recente Hellblade 2. Ma chi ha studiato un po’ di storia sa che la decadenza, l’inflazione, la crisi, seguono proprio i momenti di picco. Nel caso del videogioco vale lo stesso destino dell’arte in generale, ovvero di quella morte dell’arte attribuita a Hegel. Il videogioco potrà vivere crisi come prodotto, ma è ormai ovunque, allo stato gassoso: è nei modi in cui è organizzato il lavoro o l’istruzione, è alla base del successo dei social media e persino, sempre di più, nelle operazioni militari. Come ha sostenuto Galloway, il videogioco è diventato la logica culturale del nostro tempo.
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