DAGOREPORT
il matrimonio di michela murgia 1
Casa dolce casa… no, meglio, facciamo Benjamin: “La casa, la patria”. Dico: uno come se la immagina una casa queer? Come minimo senza porte, senza serrature. Partiamo da queer: “Termine utilizzato per indicare coloro che non sono eterosessuali e/o non cisgender, che nella lingua inglese significava eccentrico, insolito, connesso al tedesco quer ovvero di traverso, diagonalmente. Ecco mi immagino una casa in diagonale, un po’ stile Buontalenti a Bomarzo, un pizzico di Gaudì e un quarto di Zaha Hadid.
la casa di michela murgia 3
La casa queer me la immagino, anzitutto, senza pareti verticali, inequivocabili simboli eretti, fallocentrici e patriarcali. Me la immagino, forse, senza un tetto, simbolo di chiusura ed esclusione verso l’esterno e la Natura. Me la immagino come una architettura rispondente alle indicazioni del filosofo Derrida, il cui pensiero in America ha fondato le French Theories reimportate in Europa nella declinazione mainstrem del politically-correct, cancel-culture, gender fluid, queer… insomma, tutte le declinazioni al contrario direbbe Vannnacci. L’architettura, scriveva Derrida, deve essere senza finalità, mettere in crisi il concetto di arché, l’idea che debba servire a qualcosa, che si fondi sul linguaggio classico e instaurativo di utilità, bellezza (firmitas, utilitas e venustas di Vitruvio), deve essere una architettura che sia “chance”, scriveva Derrida. La casa queer me la immaginavo così.
la casa di michela murgia 4
Ed ecco, allora, quale stupore ci coglie entrando oggi, grazie al pezzo di Sara Scarafia (come Scaraffia ma senza una f) su “Repubblica”, entrando nella “Casa queer di Michela Murgia”! Quale senso di tranquillità, quale déjà vu. Anzitutto siamo colpiti dalla grande poltrona a dondolo sulla quale siede il marito in articulo mortis Lorenzo: è una superba immagine patriarcale, dell’Ottocento, penso. Ma Scarafia senza una f subito ci mette in guardia: (la) Murgia, che non era un fuscello qualunqueer (ma questo è bodyshaming!), ci ricorda che “Lei”, quando sedeva sulla sedia a dondolo, “era elastica e aveva un rapporto col suo corpo stupendo”.
ROBERTO SAVIANO MICHELA MURGIA
Vabbé, se non sul dondolo come una Virginia Woolf, per sedersi (ma sedersi non è un atto poco queer? Poco movimentista?) nella casa queer ci sono divani a L, in grigio chiaro e “le sedie di velluto attorno al tavolo rettangolare” e il parquet di legno chiaro, proprio come a casa di mia sorella, mi viene in mente, che però non è queer e fa il medico di base. La candela profumata sta in una lampada alla turca, uguale a quella che le signore radical-chic della Milano anni Novanta compravano nel costoso negozio di roba esotica chiamato, per paradosso, High-tech.
la casa di michela murgia 2
La libreria della casa queer è a ripiani, razionalista, montabile con su tre libri, le foto e una targa, come dalla mia vicina di casa. Però, attenzione: l’ha montata lo Sgomorrato! Sì, Scarafia senza una f ci informa che “Roberto ha preso il trapano in mano”. E chi non vorrebbe avere una libreria Ikea, antimuffa e antimafia, montata con il Black&Decker da Saviano? Mica l’immigrato pagato in nero!
Ed eccoci nel tempio della casa queer: la cucina. Noooo, quando dici che le donne devono stare in cucina e ti senti il massimo dello stronzo patriarcale… Io credevo che nella casa queer la cucina non ci fosse. Invece “Lei” adorava stare ai fornelli come una sora Fabrizi: “Cucinava il risotto” (“riso e rane trionfo meneghino”, poetava quel minore di Montale).
la casa di michela murgia 1
Nella cabina armadio (urca) ci stanno ancora “gli abiti queer usati per la festa di matrimonio”, quelli bianchi firmati da Dior (accipicchia) indossati pure dallo Sgomoratto, dal cannibale Repetti e dalle pseudo scrittrici amiche sue. Ciò contrasta, in parte, con un articolo del “Corriere” che alcuni giorni fa ci informava che “il guardaroba di Murgia” sarebbe andato a “Chiara Tagliaferri” (caspita, che notizia!): ma la taglia, mi chiedo, andrà bene o si deve passare dalla sarta cinese?
Sono “momenti di non trascurabile felicità”, scrive la giornalista citando il titolo di un libro molto di moda (eh… i libretti degli pseudo scrittori li sfogliamo anche noi ignorantoni, cara Scarafia senza una f) “quando Lorenzo entra in camera da letto”: ma come, la casa queer c’ha pure ‘na normale camera da letto, letto matrimoniale a due piazze, epitome del matrimonio cattolico e borghese? Manco a tre? Manco il lettone di Putin? Per fortuna, ogni tanto in camera arriva Patrizia (che è? La domestica?) con la “biancheria lavata e stirata, perché la lavatrice nella casa dell’anima non c’è ancora”. Hai capito: pure la lavatrice voleva, l’elettrodomestico massima aspirazione delle sciurette aspiranti cittadine del Dopoguerra!
michela murgia
Nella camera ci sono letto matrimoniale e lettino, come per la famiglia Rossi quando va a fare le vacanze alla Pensione Marisa sull’Adriatico. Ma, attenzione: “Nel comodino che era di Michela – specifica Scarafia senza una f -, ora c’è il quarto volume della Recherche che Terenzi (ndr Lorenzo Terenzi, il marito) sta leggendo”. E qui siamo presi da un sussulto: ma nella casa queer sarà finito lo stesso volume che Alain Elkan stava leggendo su quel maledetto treno per Foggia? Forse è “Repubblica” che dà la copia in prestito?
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