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    “NON E’ RIO DE JANEIRO MA C’E’ UN CLIMA FANTASTICO” – DAI CIRCOLI ARCI DI LATINA A “ROCK IN ROMA”, LA RESISTIBILE ASCESA DI CALCUTTA, CANTORE DELL’IT-POP – L’AMORE PER BATTISTI E LA VOGLIA DI SPARIRE: “MAGARI QUANDO SARÒ IN ROVINA ANDRÒ A VENDERE IL CU*O, A RACCONTARE I FATTI MIEI IN TV” - LE DOMANDE SUI TESTI: "PER LA SVASTICA IN CENTRO A BOLOGNA DI “GAETANO” MI AVEVANO ANCHE DATO DEL NAZISTA”  – IERI SERA CONCERTO A CAPANNELLE: TRA I FAN ANCHE EMMA MARRONE - I DUE INEDITI - VIDEO


     
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    ALESSANDRO ZAGHI per www.rollingstone.it

     

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    «Che poi a me i cetrioli non mi piacciono neanche». Nemmeno a me. Entrambi abbiamo ordinato un’insalata greca, entrambi ignorando il menù in cui è perfettamente indicato il dominio dell’odiata cucurbitacea, forse affascinati dal richiamo ellenico, forse dalle olive.

     

    Milano, il caldo squaglia l’asfalto mentre ci sediamo nel dehor di un albergo di lusso, a dire il vero anche un po’ pacchiano, che non sembra incontrare granché il gusto di Edoardo, «ma non abbiamo trovato una stanza da nessun’altra parte, mi sa’ che ci sta qualcosa – la fashion week – ah, che però sta fashion week ci sta ogni mese, diciamoci la verità». Autoritratto lapidario di una popstar (volutamente?) inconsapevole.

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    Le quattordici date che costellano il tour estivo sono partite da poco, mancano appena una manciata di giorni al concerto tutto esaurito all’Ippodromo, il ritorno dopo il soldout al Forum dello scorso gennaio, ed è passato quasi un anno da quando chiedeva al pubblico del Francioni di Latina di salutare la nonna perché abita qui vicino, quasi un anno dallo sguardo timido che si affacciava dal palco dell’Arena di Verona. Ci eravamo incontrati, prima di quegli appuntamenti, per le vie di Bologna, quelle dove vanno tutti, quelle degli spritz universitari e dei gin tonic.

     

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    «Ero un po’ insicuro, avevo tanti dubbi anche legittimi, che più o meno ho imparato a gestire. Ho acquistato fiducia nei miei mezzi e nella mia voce, soprattutto grazie a Eleonora che sarebbe la mia vocal coach. Mi ha aiutato a capire le mie possibilità, a credere anche più in me stesso… diciamo che si è trasformata nella mia mental coach, tipo Schick alla Roma no?». Altro grande classico: di qualunque cosa si parli con lui, la metafora calcistica sbuca sempre.

     

     

    «Ma quello è San Siro?», chiede repentino Edoardo, come a farlo apposta. In lontananza si vedono le tribune dello stadio, quello dei grandi concerti, con tutto il rispetto per il Francioni. Sì è San Siro. Edo accenna un ghigno sotto gli occhiali da sole, il destinatario è Alessandro di Bomba Dischi, come lui grande appassionato di calcio. Magari quest’hotel poi non è così male, magari potrà tornare comodo per qualche concerto futuro. «Eh si in effetti è comodo», il sorrisetto è ancora lì. Chissà che si tratti soltanto di un richiamo al fascino della Scala del Calcio, chissà che invece il pensiero non vada a qualcosa di più grosso fra qualche anno. Forse fra le curve che idealmente dividono il Naviglio, tra il ricordo del Triplete o dei Palloni d’Oro che furono, ci sarà spazio anche per un coro dedicato al Frosinone. Staremo a vedere, anche se, guardando meglio, il passo verso l’epica del Meazza integrerebbe perfettamente il suo percorso.

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    «Organizzavo concerti in un circolo Arci a Latina, non veniva mai nessuno, quindi con degli amici abbiamo pensato di mettere insieme una specie di band per fare le aperture. C’ero io che avevo scritto un paio di canzoni, poi una mandria di gente che più o meno sapeva gli accordi; eravamo in dodici, ognuno faceva quel cazzo che gli pareva, ma era divertente, alle gente piaceva. All’inizio cambiavamo sempre nome, poi a una certa, non ricordo perché, si è deciso per Calcutta».

     

     

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    D’altronde, è scientificamente dimostrato, tutte le storie più belle – soprattutto quelle che orbitano nella musica – prima o poi incontrano un “quel cazzo che gli pareva”, non importa con quale intensità, quale accento o quale lingua pronunciato. «Racimolare tutte le volte dodici persone di cui ognuno suonava solo un tasto era diventato un problema, dopo un po’ sono rimasto a suonare solo io, e mi sono tenuto il nome». Nel frattempo le rispettive insalate di cetrioli hanno iniziato a sciogliersi, ennesimo segno di inconsistenza dell’insopportabile ortaggio. Io sto facendo lo stesso, lui sfoggia una tolleranza invidiabile al clima da tropico del cemento.

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    Qui la storia diventa improvvisamente più nebulosa, mi perdo nel dolce ricordo dei temporali che hanno tempestato maggio, e gli episodi che hanno scandito il cammino di Calcutta mi sembrano meno lineari. Sabaudian Tape – «Pubblicare quei pezzi è stata un’iniziativa non mia, lo sottoscrivo» – e le registrazioni tramutate ex post in Sacro Graal dai blog compilati da studenti sognanti, raccolte in Forse – «Mi avevano portato in un paese sopra casa mia, abbiamo registrato ste cose su un divano, quando sono uscite ero incazzatissimo». Canzoni abbozzate, album nemmeno tratteggiati, «fotografie fatte col telefono di quello che stavo facendo in quel periodo», tutto emerso in rete a cavalcare l’onda Mainstream – «pensa che all’inizio non volevo farlo, poi vedevo che tanti iniziavano a credere in me, altrimenti forse Mainstream l’avrei fatto sei anni dopo, ma per una mia insicurezza».

    calcutta bollani pardo zalone calcutta bollani pardo zalone

     

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    Il disco esce e diventa l’apriti cielo più rumoroso nella storia recente della musica italiana. Perché riuscire da semisconosciuti con il primo album, almeno per gli intellò di internet, è quantomeno da cartellino giallo. Calcutta ha ucciso l’indie, Calcutta è l’uno vale uno, Calcutta è il male del cantautorato, Calcutta è il simbolo della generazioni senza ideologie, che quella svastica in centro a Bologna non me la racconta giusta, «Mi avevano anche dato del nazista, pensa te».

     

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    Calcutta gene originario di un esercito di cloni. «Questa storia me la dicono tutti, ma non credo sia così. La mania di trovare miei epigoni penso sia dovuta a un’idea approssimativa di una stagione musicale in cui, non solo io, ma anche Cosmo, Motta, I Cani, Truppi e tanti altri hanno deciso di rischiare con la canzone italiana, ognuno a suo modo, ognuno come cazzo gli pareva. Abbiamo fatto la stessa cosa in maniera diversa, poi io ho ricevuto tante attenzioni dai media per Cosa mi manchi a fare». Perché? «Tutti c’hanno bisogno di parlare di qualcosa, forse i miei testi sono un po’ più sfocati rispetto ad altri e lasciano più spazio all’interpretazione».

     

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    Allora qui tutto cambia, perché innanzitutto c’è l’eterno ritorno del ‘come cazzo gli pareva’, poi quei tre slogan di filosofia imparati al liceo che tornano finalmente utili. Ermeneutica raffazzonata. Calcutta è la prima persona che uccide la terza, è l’iperpersonalizzazione della metafora, è la sconfitta del significato nel significante, che poi “Pesaro è una donna intelligente” che vuole dire? «Penso sia naturale per un essere umano sentire il bisogno di interpretare, però a chi mi domanda “cosa vuol dire quella frase?”, io non so che dirgli, anzi, a volte mi scoccia anche un po’. Io non sono mai andato a chiedere a un artista che cosa voleva dire sta cosa, non ce n’è bisogno».

     

    Calcutta dionisiaco, oltre il linguaggio. «Per me ogni parola è un’onomatopea di un sentimento – come ‘frfff’ può essere il rumore del fuoco, lo stesso vale per le foglie mosse dal vento, un esempio in cui la stessa parola diventa soggettiva. I termini che uso sono evocativi per me, li uso per il mio piacere, ma non è detto che quella onomatopea debba avere un significato riconoscibile a tutti. Spesso quando si ascolta musica ci si ferma ai testi, “non mi piacciono”, ma è riduttivo, bisogna pensarli dentro il contesto della musica, al di là di cosa vogliono dire, perché se suscitano qualcosa allora l’esperimento è riuscito. Ma qui stiamo parlando di me eh, mica di Dostoevskij».

     

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    Un modo di scrivere, questo si, vivisezionato da chi della ricetta Calcutta ha cercato gli ingredienti, sperando in non si sa quale reazione chimica. «Tanti ragazzi mi mandano i demo e uno somiglia a me, l’altro a Frah, l’altro ancora Coez… sembrano tutti studiati a tavolino per entrare in una playlist, ma è molto difficile che esca qualcosa di interessante se suona già uniformato. Noi cercavamo di fare cose nuove, anche sbagliando, e non fai I Cani cercando di capire come Niccolò usa i synth o le parole. È impossibile cercare di copiare la bellezza di qualcosa, proprio perché la bellezza sta proprio in ciò che non si riesce a capire, non c’è niente da fare».

     

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    Cominciamo a parlare di Evergreen, l’esame di maturità superato a pieni voti, l’album con cui Edoardo ha tolto la luce a chi da lui si aspettava altre canzoni da cameretta. «Con quel disco volevo fare errori nuovi, che suonassero completamente diversi da Mainstream. Volevo rischiare, altrimenti diventi una macchietta di te stesso e non ti diverti manco più». Era da tanto che volevi fare quel suono? Un po’ Beach Boys, un po’ pop italiano, nostalgico. «Si ce l’avevo in testa da un pezzo. Quando l’ho sentito finito ho pensato “è un po’ differente”, ma credo sia questo il bello di fare musica, sentire come suona la realtà, lo scarto tra l’idea e quello che esce veramente. Questo scarto secondo me è l’arte».

     

    Proprio in questi giorni Evergreen esce in una nuova veste, solo fisica. Due inediti, qualche brano live, qualche demo, tra cui la versione uncesored di Paracetamolo: «La linea in cui dico ‘cocaina’ era nato come una gag, l’ho tolto perché mi sembrava un po’ eccessivino. Mi sono divertito molto a fare la nuova edizione di Evergreen, soprattutto perché ho avuto questa idea di fare la copertina senza di me».

     

     

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    Sparire, una delle cose che piace di più a Edoardo. Non lasciare gioco a chi gli chiede la destinataria della sua ultima hit Sorriso, non dare un millimetro a chi cerca di sbattere la sua faccia in copertina: «Non mi va di averci troppi cazzi con sta cosa del personaggio, mi sento sbadato, non mi sento capace in certi contesti, non credo ci sia bisogno di me, né come persona né visivamente: se fossi particolarmente bravo a urlare in televisione ne gioverei anche, ma perché dovrei star male e fare una cosa che non mi piace se posso accontentarmi di quello che ho? Vaffanculo io la penso così».

     

    L’argomento gli sta particolarmente a cuore: «Poi immaginati la peggiore delle ipotesi, coi paparazzi, non puoi chiavare, non puoi far niente. Che magari esce l’articolo “Calcutta è sempre solo, sono due giorni che lo seguiamo ma niente”» ci ride su, fino a un certo punto. «A me piace che ci sia una vita privata; magari quando sarò in rovina andrò a vendere il culo, a raccontare i fatti miei in tv, ma credo sia un gesto estremo». Poche interviste, pochissime apparizioni televisive, un po’ come faceva Battisti.

     

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    Qui Edoardo si illumina, ho innescato il congegno, non è un segreto che il cantante di Amarsi un po’ sia uno dei suoi massimi riferimenti. Mi racconta con ammirazione gli episodi in cui Battisti cacciava i giornalisti dalla sua vita privata, forse romanzando qualche dettaglio, ma rende l’idea. Il paragone con Battisti regge, ma bisogna stare attenti a non spingersi troppo oltre: «È come fare un paragone tra uno che gioca a centrocampo e uno che sta in fascia, sono due ruoli diversi: lui faceva altre cose, lui aveva un’idea della musica molto più chiara di me, i testi di Mogol erano molto più a fuoco dei miei, poi era un’altra epoca, si giocava un altro calcio diciamo».

     

     

    GRETA THUNBERG COME CALCUTTA GRETA THUNBERG COME CALCUTTA

    Continua, inarrestabile. «Stiamo parlando di uno dei più grandi fenomeni della musica mondiale, poi se ti paragonano a Ronaldo – Luiz Nazario eh – che cosa devo dire, mi fa piacere. Battisti piaceva a Bowie, a John Cale, era geniale, faceva musica come cazzo gli pareva, scelte stilistiche incomprensibili che però arrivavano a un sacco di persone». Qui forse torna il paragone. «Io sono molto meno folle di Battisti, meno capace, sto ancora imparando. Purtroppo sono arrivato tardi in Serie A». Si ferma un attimo a pensare, «però dai ci sono quei giocatori che sono arrivati tardi in Serie A e hanno spaccato, fammi un esempio». Toni. Klose. Tutta gente che ha vinto un mondiale, suggerisce Alessandro dalle retrovie.

     

    Tutto torna: il come ‘cazzo gli pare’, i paragoni pallonari. Guardo San Siro, distante solo qualche centinaio di metri. Questo albergo in effetti è comodo.

     

    Prima di lasciarci Edoardo mi parla del nuovo album, forse ancora in alto mare, sta scrivendo i pezzi. «Sto facendo tante cazzatelle al computer, voglio stravolgere tutto di nuovo. Sto provando cose più groovy, più contemporanee, e magari metterle insieme a qualche suono retrò. Voglio fare un nuovo pastrocchio e vedere cosa esce fuori. Le nuove canzoni saranno mediterranee, non posso dirti altro».

     

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    Mediterranee, tutto e niente. Forse musica balearica? Forse le influenze portoghesi e sudamericane che cita spesso? Le stesse strade che seguì Battisti in uno dei suoi lavori più celebrati. Piantiamola con le congetture, lasciamo sia lui a fare il musicista, che è bravo a farlo. Anima Latina, di provenienza e citazioni musicali. Un gioco di parole tanto scontato da rasentare la cafonata. Ci piace, e anche noi facciamo come cazzo ci pare.

     

    Postilla ermeneutica raffazzonata: Si dice che Cristoforo Colombo volesse originariamente arrivare a Calcutta costeggiando le rive del Gange. Partito senza troppo sapere dove andava e facendo come cazzo gli pareva, Colombo ha trovato l’America

     

    Il concerto di Edoardo all’Ippodromo ha segnato, nell’ordine: il record di paganti per l’area, il record di svenimenti durante la prima canzone in scaletta, una folla mastodontica che canta una cover di Miguel Bosé, una ragazza che durante uno stacco urla “sei un manzo”.

     

    Partito senza troppo sapere dove andava e facendo come cazzo gli pareva, forse l’America l’ha trovata pure Calcutta.

    calcutta tommaso paradiso calcutta tommaso paradiso

     

     

     

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