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Arianna Di Genova per “il Manifesto”
Quasi sempre, l’ambizione di possedere il mondo in una stanza, comincia da bambini. Prende l’avvio da quell’ansia di possesso che cerca di esorcizzare la paura dell’abbandono, o meglio, dell’invisibilità in quanto «troppo piccoli». Peter Blake venne «iniziato» dalla madre, che fino ai sette anni ogni venerdì gli portava in dono un soldatino o una sciocchezza qualsiasi.
Lo scoppio della guerra interruppe la consuetudine, ma non il suo ricordo che Blake reiterò anno dopo anno, una volta divenuto adulto. Andy Warhol, provenendo da una classe di immigrati che non avevano conosciuto nessuna agiatezza, con la mente rivolta a quel bambino che era stato, iniziò a stipare cianfrusaglie e soprattutto giocattoli in casa, trasformando in magazzini della memoria intere camere. Negli anni, si risolse a vivere fra cucina e stanza da letto, lasciando tutto lo spazio a quell’immenso patrimonio di oggetti, divisi fra roba da spazzatura e tesori di inestimabile valore: si andava dai manufatti industriali kitsch a pezzi unici di arredo déco.
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A differenza di molti altri artisti còlti dal demone della collezione e dell’accumulo selvaggio di cose trovate, ricercate, amate, malinconicamente date via solo per necessità, Warhol non amava mostrare i suoi acquisti. Non li considerava un autoritratto spendibile in società.
Temeva che gli innumerevoli suoi oggetti prendessero il sopravvento e finissero per racchiuderlo in una rappresentazione, fornendo ad estranei indicazioni di sé non gradite. Molti di quegli oggetti non ebbero neanche la fortuna di annusare l’aria: rimasero imballati, immagazzinati, preservati dall’usura del tempo, lontani dalla polvere, ma anche dalla vita.
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Warhol aveva il terrore della morte e «praticava» la sua idea di archivio esistenziale nel suo quotidiano registrare ogni sensazione dal risveglio in poi, spesso snocciolando — al telefono con un’amica — quei frammenti di tempo rubati. Forse, non avrebbe sofferto nel vedere andare all’asta i suoi diecimila oggetti: Sotheby’s li offrì in una vendita all’incanto colossale, che durò dieci giorni e fece incassare 25 milioni, tutti destinati alla nascente fondazione dedicata all’artista. Era il 1988 e Warhol era morto l’anno prima senza lasciare disposizioni per le sue infinite cianfrusaglie.
La mostra apertasi alla Barbican di Londra, dal titolo Magnificent Obsessions. The Artist as a Collector (visitabile fino al 25 maggio, a cura di Lydia Yee) propone — con un allestimento a scatole cinesi — una serie di Wunderkammer, stanze delle meraviglie organizzate secondo alcune personalissime visioni del mondo.
Quattordici gli artisti chiamati a testimoniare della loro «ossessione» — Arman, Peter Blake, Hanne Darboven, Edmund de Waal, Damien Hirst, Howard Hodgkin, Dr Lakra, Sol LeWitt, Martin Parr, Jim Shaw, Hiroshi Sugimoto, Andy Warhol, Pae White, Martin Wong/Danh Vo. Tutti hanno storie diverse alle spalle, ma sono avvicinati l’un l’altro per la sbalorditiva compulsività dell’acquisto e la medesima stratificazione di oggetti che funge da detonatore, trasfigurando i gesti quotidiani in una sorta di trattato di filosofia a futuro uso e consumo.
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Se Warhol non era interessato a dare un ordine alla sua collezione, preso dal rapace istinto di possedere ciò che riteneva bello e interessante, Damien Hirst può collocarsi al suo esatto opposto. Secondo l’artista inglese — che sta progettando un museo a Londra dove esporre le sue «curiosità» — il collezionista ha una sorta di responsabilità, una necessità di tramandare ai posteri le cose sottratte alla furia del tempo. «Credo che qualsiasi raccolta sia una mappa della vita di una persona», dice.
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Anche la sua «mania» affonda le radici nell’infanzia, quando Damien catalogava minerali e fossili, ma la vera svolta arrivò a metà degli anni Ottanta, quando un suo vicino solitario, mister Barnes, morì. Dentro quella casa, in una sola stanza, ammassati fino al soffitto, c’erano sessant’anni di esistenza. Hirst prelevò molti di quegli oggetti e li usò nelle sue opere.
Poi, cominciò a sfogliare manuali di patologia e arte, affascinato dalla virulenza ed esuberanza dei colori che contrastavano con i soggetti macabri. Tavole mediche e anatomiche dell’Ottocento finirono sul suo tavolo, insieme agli animali tassidermizzati, soprattutto quelli malformati che rappresentavano il fallimento del dominio sulla natura a cui aveva aspirato l’epoca vittoriana. Vita e morte si rincorrevano nelle immagini, mentre Hirst conferiva alla sua collezione un ordine «psicologico»: il suo è oggi un gigantesco archivio del memento mori e della vanitas, un catalogo che intrecciava insieme credenze antiche, la forza del mito e le prove della scienza.
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Pure il vietnamita Dahn Vo, come Hirst, ritiene che il collezionista non sia un pazzo che agisce separato dagli altri individui. Chi raccoglie e classifica porzioni di realtà, così come chi viene dopo di lui, ha il dovere di dare completezza a quel mondo, di renderlo significante come fosse un tutto, anche se nelle sue singole parti è costituito da oggetti inutili, gadget, memorabilia effimere. Così, quando l’artista Martin Wong morì di Aids nel 1999, Dahn Vo si pose il problema di come far rivivere quella sua strabiliante collezione di cose, che andava dalle icone Disney, alle insegne dei negozi fino alle ceramiche — variegate fonti di ispirazione per la sua pittura eccentrica.
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Migliaia e migliaia di «presenze» — un potente ritratto d’artista — che la madre Florence si era presa il compito di vegliare, in memoria del figlio scomparso. Acquisita la collezione, Vo è riuscito ad esporla al Guggenheim e, alla fine, a interessare il Walker Art Center, salvandola dall’oblio.
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Martin Parr ha avuto in sorte di condividere con il fotografo giapponese Hiroshi Sugimoto, la stessa passione infantile: l’amore per i treni. Lui, proveniente da famiglia di ornitologi, poteva contare ancheinoltre, nel seminterrato di casa, su un museo di storia naturale allestito negli anni dai genitori con la sua complicità di bambino. Entrambi — Parr e Sugimoto — mutarono soggetto con il passare del tempo.
Il primo si rivolse ai cimeli politici (da quelli dell’odiata Thatcher a Martin Luther King) per riassumere un’identità sociale e culturale, fino ad arrivare alla bellissima collezione, formata in più di dieci anni di acquisti, dei cani dello spazio russi (Laika e Belka) raffigurati su posaceneri, vassoi, orologi. Il secondo, appena ebbe in mano una macchina fotografica a 12 anni continuò a immortalare locomotive per poi distogliere lo sguardo e fissarlo su kit medici della guerra mondiale e modelli in cera. Negli anni Settanta si era trasformato anche in dealer, aprendo una galleria a Soho, New York, dove vendeva manufatti giapponesi di grande raffinatezza.
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Difficilmente, comunque, gli artisti comprano e accumulano per investimento economico. Non è il business a martellare sulla loro ossessione. È piuttosto il desiderio di raccontare una storia, come spiega bene Edmund De Waal, ceramista inglese, storico dell’arte e critico. «Tutto comincia quando togli di tasca un oggetto, te lo metti di fronte e lo osservi. Nasce così una nuova narrazione».
Ed è proprio quello che ha fatto, rintracciando le complesse vicende della sua famiglia in una serie di minuscole sculture in avorio, legno o ambra delle dimensioni di una scatola di fiammiferi, i netsuke. Forate da due buchi attraverso per i quali passava un cordoncino in seta, erano destinate a fissare alla cintura del kimono, servivano per la scatoletta delle medicine o per il tabacco. Quei netsuke, raccolti dai suoi bisnonni, rappresentavano per De Waal l’unico filo di connessione con il mondo perduto dei suoi avi, gli Ephrussi, ebrei originari di Odessa; in origine commercianti di cereali, poi banchieri conosciuti in tutta Europa, che il nazismo disperse.
Solo le statuette giapponesi sfuggirono ai razziatori tedeschi. E De Waal — che ha scritto questa storia nel libro Un’eredità di avorio e ambra, uscito in Italia per Bollati Boringhieri — non poteva che ripartire da qui, chiudendo il cerchio.
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