Gaia Piccardi per www.corriere.it
berrettini
Il bambino voleva fare judo: il contatto fisico regolato dalle antiche regole di un’arte di difesa datata 1882, l’energia da sfogare sul tatami, la dimensione di gruppo di una disciplina da palestra, valida anche d’inverno. Mamma Claudia e papà Luca erano d’accordo ma sullo sfondo diceva la sua il fratellino Jacopo, due anni e sette mesi più giovane, che all’epoca sembrava il vero talento della famiglia Berrettini: dai, Matteo, molla il judo e vieni a giocare a tennis con me.
E così, «più per far contento il fratello che per una reale convinzione di voler imbracciare la racchetta» (Claudia dixit), il primo finalista italiano a Wimbledon, in grado di superare i fasti di Nick Pietrangeli, che 61 anni fa raggiunse la semifinale
AJLA TOMLJANOVIC e BERRETTINI 8
Esploso due anni fa
Quello di Matteo Berrettini, 25 anni, granatiere di 196 centimetri capace di fare i buchi nel campo con il servizio, fidanzato della collega Ajla Tomlianovic, discreto cuoco ai fornelli (specialità cacio e pepe), cocco di nonna Lucia (natali brasiliani) e tifoso della Fiorentina per via di un nonno toscano, è un percorso di crescita che non ha mai fatto gridare al fenomeno (vedi Jannik Sinner, tanto per intenderci).
Il canguro del Nuovo Salario, il quartiere di Roma dove è cresciuto, è esploso nel 2019 con i titoli di Budapest (terra) e Stoccarda (erba), la semifinale all’Us Open (fermato da Nadal), la qualificazione last minute alle Atp Finals di Londra, dove Matteo è arrivato da apprendista stregone tra i maestri, quasi stupito di tanta attenzione.
La presa di coscienza
matteo berrettini vince il torneo queen's 5
Curioso, umile, ben voluto da tutti nell’ambiente, «Berretto» si è fatto largo con le armi del tennis moderno (devastante combinazione servizio-dritto), dotandosi di strumenti più raffinati e altrettanto utili (il rovescio in back, staccando la mano dai meccanismi bimani, le doti di tocco che sta mettendo in mostra a Wimbledon) strada facendo.
Svezzato dal maestro Raul Pietrangeli, è diventato grande sotto le cure di Vincenzo Santopadre, ex pro oggi coach preparato e di grande umanità, che di lui dice: «Matteo ha la convinzione di poter stare con i migliori e, poiché certe sconfitte sono più importanti di certe vittorie, è stato proprio il kappaò a Parigi con il numero uno Djokovic a dargli quell’ultima consapevolezza che gli mancava. Io, cioè, ero perfettamente al corrente delle sue doti, però serviva che ne prendesse coscienza anche lui».
matteo berrettini
Crescita velocissima
Del team Berrettini fa parte anche un mental coach, Stefano Massari, figura-chiave nell’evoluzione dell’uomo e del tennista. Un dato su tutti: Matteo ha giocato la prima partita del circuito Atp all’inizio del 2018 (qualificazioni del torneo di Doha), alla fine del 2019 era numero 8 del ranking. L’esplosione sull’erba – trionfo al torneo del Queen’s e imbattuto a Wimbledon da cinque match – è il risultato di un percorso nemmeno troppo lungo.
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«Quattro anni fa sul verde Matteo non aveva competenze – ricorda Santopadre -, non sapeva come muoversi, non aveva gli appoggi e i colpi giusti». Ma l’ex judoka impara in fretta. Decisiva la trasferta in India, a Calcutta, per il playoff di Coppa Davis, incredibilmente facile la transizione dal rosso di Parigi ai prati di Wimbledon quest’anno (due sport diversi: nel passaggio si perdono in molti): rispetto al tennista che aveva battuto l’amico Felix Auger-Aliassime in finale a Stoccarda, prima di fare i bis nei quarti in Church Road, due anni dopo Berrettini è un tennista diverso.
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La semifinale
La semifinale di venerdì 9 luglio contro il polacco Hurkacz, lo spilungone che già ci aveva dato un dispiacere lo scorso aprile battendo Sinner nella finale del Master 1000 di Miami, è stata a senso unico.
E ora il tennis italiano si gode la primizia di un azzurro in finale a Wimbledon in 144 anni di storia, magari contro Novak Djokovic (atteso dall’interessante sfida con il giovane mancino canadese Shapovalov), lanciato verso il Golden Slam. «È tutto pazzesco, ma è tutto vero», dice Berrettini con gli occhi che luccicano e la barbetta elettrica. «È un sogno, e ora devo crederci». Se è una favola, non svegliateci.
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