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Benny Casadei Lucchi per il Giornale
Basta guardarlo con attenzione, Robert Kubica. Dritto negli occhi. Come fa lui con tutti.
Sguardo fiero e sincero da boscaiolo che lo vedresti bene con una camicia a quadrettoni seduto a un bancone di legno preso a scambiare due chiacchiere e quelle cose lì da amici veri che in formula uno non esistono. Né gli amici né il bancone di legno. E se non esistono è solo perché il dio dei motori non ha da dato tempo a Robert di cambiarla un po' questa F1 e a 26 anni, un fottuto mattino di febbraio del 2011, durante un rally, ha deciso che la vita sportiva di questo ragazzone polacco dovesse fermarsi contro un guardrail.
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Sembrava per sempre, invece, un anno e mezzo dopo era già di nuovo al volante di un'auto da rally, questo testardo e commovente boscaiolo delle corse. Eppure la Skoda aperta in due dal guardrail, eppure le mani martoriate, la destra addirittura appesa all'avambraccio come un tutt'uno a brandelli, eppure quelle mani che solo poche settimane prima avevano firmato il pre contratto con la Ferrari erano sembrate perse per sempre.
Invece, ieri ad Abu Dhabi, dopo anni di operazioni e sofferenze e la partecipazione a gare via via sempre meno minori, quelle mani hanno siglato il contratto che nel 2019 lo farà scendere in pista come pilota titolare della Williams e non più collaudatore; cosa che invece accadrà stamane, nelle prime libere. E sarebbe potuto succedere già un anno fa, se solo lo storico team inglese non fosse ormai una delle tante squadre che nel Circus devono avere sempre un occhio di riguardo verso piloti con meno talento nei piedi e più soldi in valigia. Chiedere in proposito al russo Sirotkin che tolse il volante a Robert.
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Robert che ora dice «non sarei qui se non fossi sicuro di potercela fare», che spiega, riferendosi alla mano destra con poca mobilità, di comprendere «le perplessità di chi ha dubbi sulla mie chance di guidare una F1 con i limiti fisici che ho», che rassicura «questo anno come terzo pilota e i test fatti hanno dato alla Williams tutte le risposte che cercava... ma io, quelle risposte le avevo già da anni, grazie ai rally...». E, mentre parla, commuove pensare che dal 2011, dal suo incidente, dal treno Ferrari perso, Vettel ed Hamilton e Rosberg, piloti che nei kart Robert aveva battuto, hanno poi vinto tutti i mondiali.
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E allora che peso vogliamo dare ai mille mondiali della vita conquistati da questo ragazzo? Era poco più che adolescente quando, ormai promessa del karting e delle formule minori, si sbriciolò un avambraccio mentre si trovava passeggero sull'auto guidata da un amico. Era ormai un emergente della F1 quando la sua Bmw decollò nel Gp del Canada e le immagini dell'abitacolo sventrato fecero il giro del mondo, lui ne uscì illeso, e un miracolo pensarono i tifosi.
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Quell'anno, era il 2007, molti polacchi decisero di scrivere al Vaticano perché l'evento fosse inserito nella causa di beatificazione di Giovanni Paolo II, «però mi auguro che il mio Papa diventi santo per cose più importanti di un incidente di corsa...» commentò subito Robert. Robert che adesso dice «so bene che nessuno ci ha mai creduto, che l'unico a non aver mai mollato sono stato io, però, ora sono qui e credo proprio di aver dimostrato che nulla è impossibile. Ecco, appunto: quanti mondiali vale tutto questo?
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