Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport
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Ci siamo svegliati dalla sbornia con un cerchio alla testa, un’aspirina in una mano e un ciuffo di peli nell’altra. Sembravano quelli del cocker di casa e invece erano la frezza di Roberto Mancini, strappati in qualche frangente dell’ammucchiata finale.
Il delirio dove piangevano tutti, anche Berrettini e Beckham in tribuna, per ragioni supponiamo diverse, chi i rigore li segna e chi li sbaglia. Non piangeva quel simpaticone di Gareth Southgate, sedicente allenatore, il vero nemico degli inglesi, non potendo immaginare che uno sia così sprovveduto da mandare al macello tre bebè spaventati a morte, di cui due entrati da un minuto.
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Fessaggine esemplare che meritava una punizione esemplare. Ci pensava il nostro Calamaro Gigante tra i pali. Troppo e troppi tentacoli per quei ragazzini divorati dalla fifa.
Erano i magnifici resti di una giornata che traslocava di continuo dal sogno all’incubo e poi ancora al sogno. Le fessure da cobra di Nole Djokovic ci stavano ancora addosso quando a Wembley partiva il secondo psicodramma, quello del pallone. Era stato un ciuffo d’erba a farci male nel primo caso. L’erba di Wimbledon.
I due fili che il Nole vegetariano si mangiava da consumato attore, dopo essere stramazzato da copione. Mentre il nostro avvenente Gorillone non sapeva se ridere o se piangere. Rodevano e piangevano insieme Spinazzola e De Rossi allacciati in tribuna a Wembley, Vialli e Mancini che si abbracciavano in campo, un amplesso più che un abbraccio, dove c’era tutta la loro storia gemellare.
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Esultava per tutti in tribuna la ragazza travestita da anguria tricolore, alla faccia dei glamourosi Tom Cruise e David Beckham che si erano dati il cinque a inizio partita, anticipando una festa che non ci sarebbe mai stata.
Domenica della serie chi se la scorda. I tumulti del cuore, la percussione metal di una giornata infinita. L’amor di patria in missione va prima sommesso quasi in preghiera a consumare il suo picnic sull’erba, della serie non succede ma se succede, per poi chiudere nella fossa stereofonica di Wembley, nove ore consecutive e dieci miglia di viaggio ad affrontare leggende, mostri, leoni e regine, fino all’incubo peggiore, la zazzera psichedelica di Zio Boris in tribuna.
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Alla fine, un solo vincitore, Gigio il Calamaro Gigante, tutto nostro per fortuna.
Primo atto. Wimbledon. Il sogno prendeva forma, s’allungava gioiosamente e poi crudelmente quando il nostro magnifico Bestione dal servizio che spiana e dal sorriso che stende, bello come solo James Bond, strappava il primo set alla non meno magnifica Bestiaccia Gommosa con gli occhi di serpente.
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Ne subisce l’ipnotico tennis, le vischiose ragnatele, salvo spezzarle a colpi di martello. Perché non crederci? Ci si aggrappa tutto. Qualcuno potrebbe aver infilato un ragno velenoso nella mutande di Nole o infiltrato una dose di valium nella sua banane da ristoro. Se Renzo Arbore ha suonato il mandolino nella Piazza Rossa a Mosca, perché Matteo non potrebbe suonare il suo in faccia a quanto resta del Duca di Kent?
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Ma il serbo era il muro di una dimensione parallela. S’allungava, si slombava, s’inarcava, si raddoppiava, si quadruplicava, si piegava, ma non si rompeva. Missione impossibile. Il nostro titano ci provava con le sue mazzate ci risparmiava almeno dall’intrattenimento manicomiale che diventa il tennis quando i palleggi si moltiplicano all’infinito.
Si alzavano cori a favore del nostro Matteo, persino da parte delle babbione inglesi, ma non sarebbero bastati nemmeno i cori degli alpini per esorcizzare quel demonio di Nole, meno che mai gli anatemi in tribuna della mamma di Matteo sempre più simile alla signora delle camelie.
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Si traslocava a Wembley con l’immagine di Mancini nel cellulare travestito da Braveheart, una grande speranza e un sinistro presagio. Che raddoppiava quando Luke Shaw, il calciatore che Mourinho detesta, ci faceva male subito, dopo un paio di minuti. Paura superflua. I leoni inglesi hanno un grande stadio, ma non avevano ieri un grande cuore.
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