DAGOREPORT – MARINA E PIER SILVIO NON HANNO FATTO I CONTI CON IL VUOTO DI POTERE IN FAMIGLIA…
jonh malkovich interpreta david bailey : mick jagger "fur hood" foto di sandro miller
Giuseppe Videtti per La Repubblica
L’istinto del bad boy è ancora intatto, negli occhi indagatori, nei candidi capelli arruffati, nell’allegra e goliardica franchezza con cui si racconta, in quegli ampi jeans scoloriti, negli stivaloni da cowboy, nella camicia a scacchi. E in quella risata generosa e provocatoria che a intervalli regolari risuona dentro l’ampio e luminoso spazio del Pac di Milano, dove si inaugura Stardust, la mostra dedicata ai suoi ritratti.
David Bailey è più giovanile e dinamico degli autoritratti in cui si mostra come un decrepito Truman Capote. Ha settantasette anni e oltre mezzo secolo di carriera da esibire, non solo per aver incorniciato la swingin’ London con un’inedita attitudine rock’n’roll, ma per aver prepotentemente canalizzato l’energia della nuova cultura nei fashion magazine e nell’establishment, immortalando in un inconfondibile look casual-cool Beatles e Rolling Stones, Jean Shrimpton e Kate Moss, Michael Caine e Terence Stamp, gli aborigeni della Papua Nuova Guinea e i Sadhu indiani, Man Ray e Salvador Dalì, Andy Warhol e la regina Elisabetta (per i suoi ottantotto anni).
«Quando per la prima volta ebbi in mano una macchina fotografica ogni cosa era per me un soggetto interessante, prima di tutto le persone; viso, trucco, taglio di capelli, abbigliamento sono immediatamente il segno di un’epoca. Di panorami ne ho fatti tanti, più che altro per diletto. Ho bisogno di parlare con i soggetti, non riesco a parlare con un albero o un prato o un fiore», dice scoppiando in una contagiosa risata mentre suggerisce gli ultimi aggiustamenti nella sezione intitolata East End, immagini del suo quartiere, lo stesso di Hitchcock, scattate negli anni Sessanta, a ribadire con fierezza la sua estrazione proletaria — Bansky di una metropoli tutt’altro che swingin’ quando ci si allontanava da Carnaby Street. Ordina un caffè, lo gira con la stanghetta dei buffi occhiali da presbite. «Da piccolo dipingevo, scarabocchiavo.
Avevo tredici anni quando il professore di scienze, un emerito cretino, cominciò a farmi sviluppare delle pellicole. Ecco da dove vengo, non ho imparato niente a scuola. A sedici anni due ragazzi del quartiere che frequentavano l’Accademia delle belle arti mi fecero scoprire Picasso; fino a quel momento avevo solo dipinto scene dell’universo Disney — con un disegno di Bambi vinsi anche un premio a tredici anni. Poi sa come sono gli adolescenti, volubili; a un certo punto mi misi in testa di suonare la tromba come Chet Baker. Ero incantato dalle foto che gli aveva scattato William Claxton. Sotto le armi, tutti i miei compagni avevano le pin up appese al muro, io un Picasso del periodo africano».
CATHERINE DENEUVE E DAVID BAILEY IN COSTA SMERALDA FOTO DI NINO DI SALVO
Si sofferma davanti a un bianco e nero del ‘61: tre bambini in uno scenario postbellico. «Ricordo ancora i bombardamenti, le lunghe ore trascorse nel rifugio. Non avevo aspettative, un ragazzo dislessico e con quel terribile accento dell’East End parte già svantaggiato, mi scambiavano per un immigrato. Quando cominciai a pubblicare, gli editori chiamavano a casa e dicevano: per favore può riferire al signor Bailey che le foto ci sono piaciute? Anche quando dissi a mia madre che volevo fare il musicista lo feci senza convinzione, sapevo che al massimo sarei diventato un autista di tram. Mio padre non è mai riuscito a credere che si potesse far soldi con la fotografia. Non l’ho mai visto leggere un libro. Era un uomo tutto d’un pezzo, drink and fuck, fuck and drink . Anni difficili, bisognava avere la pelle dura per sopravvivere».
Immagini diverse da quelle che lo hanno santificato sull’altare della moda, in quegli anni Sessanta in cui era fotografo e tombeur de femmes , capellone accanto a Twiggy, Penelope Tree e Marianne Faithfull, mod fascinoso durante la celeberrima fuitina newyorchese con Jean Shrimpton (che culminò in un memorabile reportage), quando a quelli di Vogue disse: «Se volete me, dovete prendere anche lei», e “gamberetto”, come la chiamavano, diventò la prima top model dell’era moderna, riverita persino dalle maison d’Oltremanica.
Paul e John visti da David Bailey
Fino al matrimonio con Catherine Deneuve nel 1965 (seconda di quattro mogli, dal 1986 è sposato con la modella Catherine Dyer, ventitrè anni più giovane), naufragato, dice in uno di quei momenti di irrefrenabile buonumore, per insormontabili barriere linguistiche. «La chiamata di Vogue mi sembrò strana, non ero interessato al mondo della moda, anzi, ne ero infastidito. Accettai con riluttanza, misi subito in chiaro che avrei fatto a modo mio. Non mi è mai piaciuta l’attitudine di Condé-Nast: un fotografo diventa geniale e gli dedicano una retrospettiva di sei pagine solo da morto. Noi inglesi siamo degli ipocriti, abbiamo di buono solo il senso dell’umorismo. Al contrario ho adorato lavorare per Vogue Italia alla fine degli anni Sessanta e per il Sunday Times ».
12 Amanda Lear foto david bailey ago1971
Vaga con lo sguardo sulla parete affollata dalle immagini più antiche, ricorda le lunghe ore trascorse al cinema, due spettacoli al giorno, cinque volte a settimana: «Quel che c’era da sapere l’ho imparato da John Huston e Orson Welles, dal cattivo gusto di Fellini e dalla raffinatezza di Visconti, da Howard Hawkes e Billy Wilder. Ma quando il mio amico Charlie mi fece conoscere Picasso non ci fu più posto per nessuno».
Da quel momento il pittore è diventato il metro per misurare la genialità («Dylan? Il Picasso della musica»). Lo entusiasma meno l’idea di essere associato a Blow Up, il film di Antonioni del 1967. «È una storia lunga e noiosa», sbuffa. «In realtà non fu un’idea di Michelangelo ma di Carlo Ponti. Due produttori che a stento parlavano inglese vennero a cercarmi negli studi di Vogue. Mi dissero: ci piace la sua faccia, il suo stile è perfetto, la vorremmo in un film. Risposi: sono dislessico, non riesco neanche a memorizzare un numero di telefono figuriamoci un copione. Non si fecero più vivi. Solo anni dopo il giornalista Francis Wyndham, con cui all’epoca stavo preparando il libro Box of Pin-Ups , mi confessò di aver scritto per Antonioni più di duecento pagine sulla Londra dell’epoca e sui fotografi di moda, ispirandosi a me. Spero non me ne vorrai, disse. E io: no, mi spiace per te che hai contribuito a un film tediosissimo, sbagliato anche nei costumi: David Hemmings era troppo vistosamente middle class, Michael Caine o Terence Stamp sarebbero stati perfetti. Andai a vederlo con Catherine Deneuve, uno sbadiglio dietro l’altro».
La verve del fotografo è formidabile. Ilarità, ironia, sarcasmo. Ne ha per tutti. La swingin’ London ? «Divertente per quelle cinquecento persone che ne facevano parte, i minatori scozzesi neanche se ne accorsero. Ebbi la fortuna di conoscere alcuni dei protagonisti ben prima che diventassero famosi, Jagger, Caine, Stamp. Oltre a Brian Duffy e Terence Donovan, gli altri due fotografi dell’epoca con l’accento da borgatari come me».
regina elisabetta by david bailey
Jean Shrimpton? «La incrociai nello studio di un amico, mi disse: lascia stare è troppo chic per te». Le top model? «Solo Jean e Kate Moss hanno la iconica magia di Garbo e Dietrich. Lauren Hutton forse, Christy Turlington forse». Lo star system? «Quando si scatta tutti fuori: stilisti, pubblicisti, segretarie... in studio solo io e la mia équipe».
Vogue ? «Diana Vreeland è stata una delle mie migliori amiche per quindici anni, ma non le ho mai permesso di interferire, loro vogliono sempre che tutto sia perfetto, ritoccherebbero anche Monna Lisa». Ritratti difficili? «I cannibali di Papua Nuova Guinea; scattai delle polaroid, gliele mostrai, gli diedero un’occhiata e le scaraventarono in terra, credevano fosse uno specchio rotto. Un tipico momento alla Marshall McLuhan».
rolling stones by david bailey
L’India? «Affascinante ma non mi ha cambiato la vita. I masturbate, don’t meditate (mi masturbo, non medito)». Il soggetto ideale? «David Bowie». Uno scatto mancato? «Fidel Castro. Tina Brown e io ci abbiamo provato e riprovato, alla fine volevano che restassi sei mesi all’Avana. Fanculo».
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