ronald reagan
Ferruccio De Bortoli per “l’Economia - Corriere della Sera”
Ronald Reagan disse del deficit americano che era così grande da poter badare a sé stesso. Dunque, non era il caso di preoccuparsi più di tanto. Nè del deficit nè del debito. Ma era il presidente degli Stati Uniti (1981-89), non l' ultimo della fila. E neanche il premier di un Paese isolato nell' Unione europea.
Quando venne eletto alla Casa Bianca, Reagan apparve a molti osservatori europei (anche sul Corriere, purtroppo) un intruso. Com' è accaduto un po' per Donald Trump. Si sbagliò allora nel sottovalutarlo. Forse si sbaglia anche oggi insistendo troppo, nell' analisi della svolta politica americana, sui tratti caratteriali dell' attuale presidente. Ma è un altro discorso. L' ex attore di Hollywood mise fine alla Guerra Fredda, favorì il dissolvimento dell' Unione sovietica, passò alla Storia come un protagonista assoluto ma non vinse la sua battaglia contro il debito pubblico. Anzi.
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Applicando la teoria dell' economista Arthur Laffer, l' amministrazione Reagan ridusse inizialmente le tasse, scommettendo su un aumento del gettito, che non avvenne. E fu poi costretta a rialzarle per riequilibrare le finanze pubbliche. La Reaganomics aveva in sé molte virtù: liberalizzare l' economia, ridurre la pressione fiscale per favorire l' attività economica, alleggerire il peso dello Stato. Reagan insieme a Margaret Thatcher - come ha scritto nel suo libro Alberto Mingardi (La verità, vi prego, sul neoliberismo, Marsilio), rimane un' autentica icona del pensiero liberale. Ma l' esperienza americana degli anni Ottanta insegna, ancora oggi, che riducendo la pressione fiscale in deficit si può certamente stimolare l' economia ma difficilmente, con una maggiore crescita, si riesce a piegare la curva del debito pubblico in rapporto con il Prodotto interno lordo.
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«E se non ci sono riusciti gli Stati Uniti - commenta il capo economista di Confindustria Andrea Montanino - figuriamoci gli altri. All' epoca del primo Reagan, il debito pubblico americano non era poi così alto. Era intorno al 30 per cento e il livello di tassazione relativamente basso. Eppure, anche in una grande economia come quella americana, dinamica, competitiva, reattiva, si dovette fare marcia indietro». «Reagan venne meno ma solo inizialmente - spiega Alberto Mingardi - a un principio che potremmo definire sacro per il pensiero liberale, ovvero il pareggio di bilancio».
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Paragonare situazioni tanto differenti, anche sul piano storico, è improprio. Ma utile per comprendere alcune dinamiche di fondo dell' economia. Anche in Italia si è continuato a dire - con minore autorevolezza - che il debito, il terzo per dimensioni al mondo, poteva badare a sé stesso. A volte si ha la sensazione che non appartenga a nessuno. Quelli di Roma, Napoli, Catania e via di seguito vengono scaricati sul bilancio pubblico. Idem per le Regioni in difficoltà.
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Chi sciala trasferisce le conseguenze della propria malagestione sui cittadini più virtuosi. È l' esatto contrario del principio che dovrebbe animare il regionalismo differenziato: un premio a chi spende meglio. Non vi è mai stata una seria e duratura politica di diretto contenimento del debito pubblico. E anche in passato, in particolare con i governi Berlusconi, si è coltivata a lungo l' illusione che un vigoroso taglio di tasse - mai però realizzato come da intenzioni programmatiche - portasse all' agognata diminuzione del rapporto tra debito pubblico e Pil.
Lo stesso Laffer, venendo a Roma anni fa, riconobbe che sì un taglio netto al prelievo fiscale poteva essere un grande stimolo per l' attività economica, ma con scarsi effetti sul rientro da un indebitamento eccessivo. Un paper realizzato dalla Chicago University del 2012 vide un po' tutti gli accademici concordi su questa tesi. E in uno studio coordinato da Giampaolo Galli, e realizzato dall' Osservatorio sui conti pubblici dell' Università Cattolica di Milano, diretto da Carlo Cottarelli, si dice chiaramente che una manovra come quella di cui parlano alcuni esponenti dell' attuale maggioranza, inconsapevoli epigoni di Laffer fuori tempo massimo, non ha mai avuto successo.
E il modo migliore per rientrare dall' eccessivo debito è quello di avere un avanzo primario (entrate meno spese al netto degli interessi) consistente. Oggi quell' avanzo è ridotto all' 1,6 per cento. Troppo poco per difenderci da eventuali crisi di mercato. Soprattutto in una situazione nella quale i tassi di interesse sono superiori al tasso di crescita.
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Parlando al festival dell' Economia di Trento, il governatore della Banca d' Italia, Ignazio Visco, ha ricordato un episodio significativo. Un colloquio personale con l' allora capo della Bundesbank, Hans Tietmeyer, nel momento in cui l' Italia, nonostante il suo elevato debito, veniva ammessa nella moneta unica. Adesione che ci consentì di abbattere drasticamente lo spread. Tietmeyer si fidò dell' impegno personale del ministro del Tesoro, Carlo Azeglio Ciampi. La traiettoria del debito pubblico sarebbe stata, da allora in poi, piegata verso il basso. Ma con i governi successivi questo non è avvenuto.
Anche e soprattutto per la mancata crescita e per gli effetti negativi di ben due recessioni, nel 2008 e nel 2011. Morale: la credibilità è tutto. Il debito si può contenere nel rapporto con il Pil anche gradatamente, come ha affermato giovedì scorso il presidente della Bce. Le tasse si possono ridurre, ma non in deficit. Tagliando le spese.
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Nei giorni scorsi sono cambiati due governi nei Paesi del Nord a noi più ostili. In Danimarca e in Finlandia. I due nuovi esecutivi, entrambi di centrosinistra, hanno deciso di fare un po' più di deficit, e dunque anche di debito. Possono permetterselo. Ad Helsinki il neo premier Antti Rinne, a guida di un esecutivo a maggioranza femminile, ha messo l' accento sulla necessità di fare più investimenti nell' educazione, nella cura dell' ambiente, nella digitalizzazione del Paese.
FERRUCCIO DE BORTOLI
Nella lettera recapitata a Roma nella quale si paventa una procedura per eccesso di debito, la Commissione nelle prime righe, si dilunga sugli investimenti che ritiene per il nostro Paese ancora più indispensabili. Ovvero quelli sulle competenze, sulla qualità del capitale umano.
Se in tutti questi anni, di flessibilità concessa da a Bruxelles, avessimo avuto più attenzione per questi temi il rapporto con gli altri Paesi, non privi di difetti e egoismi, sarebbe stato diverso. Scontrarsi su ciò che serve per il futuro, anche in deficit, avrebbe avuto tutt' altro tono.
Sarebbe stata una posizione più forte, difficilmente contrastabile. Ma insistere nel farlo per allargare la spesa corrente, anticipare le pensioni, distribuire sussidi. E pretendere, tagliando le tasse in deficit di riuscire là dove un gigante come Reagan aveva fallito, suona velleitario e soprattutto masochista. Che fa rima con sovranista.