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    "PICCHIO DE SISTI E CI SPEZZO ANCHE LA NOCE DEL CAPOCOLLO" VIDEO STRACULT – L’INFANZIA AL QUADRARO, IL PADRE CHE SI SALVO’ DAI CAMPI DI STERMINIO, LO SCUDETTO “RUBATO” DALLA JUVE - GIANCARLO “PICCHIO” DE SISTI SI RACCONTA – IL DOPING? “DELLA FIORENTINA DEGLI ANNI '70 SI È PARLATO COME FOSSE UN OSPEDALE DA CAMPO, NON ERA COSÌ” - LA LITE CON RADICE E SOCRATES CHE FUMAVA PURE SUL PULLMAN. PECCI LO AFFERRÒ PER LA BARBA: TE SEI PRESO UN MILIARDO E NON VOI FATICA'?"

     


     
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    picchio de sisti picchio de sisti

    Stefano Cappellini per il Venerdì- la Repubblica

     

    Se il centrocampista Giancarlo De Sisti giocasse a pallone oggi, il suo soprannome non sarebbe più Picchio. Perché a Roma, la città dove è nato nel 1943, picchio stava per trottola, in omaggio al suo moto in campo e alla sua statura non svedese, e vallo a trovare un pischello del 2023 che dica di un giocatore: pare un picchio.

     

    Ma se parliamo di numeri, quelli non hanno tempo né gergo: 478 partite e 50 gol in serie A («E squalificato solo una volta, non per espulsione», racconta fiero al Venerdì), messe insieme con le sue due squadre del cuore, la Roma per cui tifava da bambino e la Fiorentina che ama, riamato, come una seconda pelle, 29 presenze e 4 reti con la Nazionale, campione d'Europa nel '68, vicecampione del mondo nel '70, uno scudetto e una Coppa Italia con la Viola, una Coppa delle Fiere e una Coppa Italia con i giallorossi. Poi c'è il numero 80, gli anni che compie il prossimo 13 marzo.

     

    Mister De Sisti, da dove partiamo per raccontare la sua vita?

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    «Dalle parole di mio padre Romolo che mi diceva sempre: poniti degli obiettivi ma non smettere mai di guardare chi è rimasto indietro. Perché si fa presto a non apprezzare quello che si ha. E per fortuna ha fatto in tempo a insegnarmelo, ho rischiato di non conoscerlo nemmeno».

     

    Per colpa della guerra?

    «Per colpa dei nazisti. Dopo le Fosse Ardeatine fecero un rastrellamento nella borgata dove abitavo, al Quadraro. Mio padre, che era operaio alla Stefer, l'azienda dei tramvieri, fu caricato insieme ad altri su un treno diretto a Forlì, da dove sarebbero poi stati tutti trasferiti ai campi di sterminio. Si salvò perché molti, tra cui lui, si buttarono giù dal treno durante un rallentamento».

     

    Come si diventava calciatori nell'Italia sfasciata di quegli anni?

    «Nel mio caso in parrocchia, l'unico posto dove i miei genitori potevano lasciarmi incustodito. Anche mamma Maria lavorava, era segretaria alla Centrale del latte, e non era contenta che io giocassi a pallone tutto il giorno.

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    Mi bucava il pallone con le forbici. E mio padre me lo ricomprava di nascosto».

     

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    Come arrivò nella squadra per la quale tifava?

    «All'epoca non era mica come adesso. Uscivano gli annunci: si indica leva calcistica per i nati negli anni x e y, presentarsi già mangiati (il mister ride mentre lo racconta, ndr). Rischiai anche di non accettare perché mi era arrivata un'offerta da una squadra che giocava a Tor Marancia, la Omi, che stava per Ottica meccanica, mi offrivano 36 mila lire al mese. Sarebbero stati di grande aiuto in famiglia».

     

    Si ricorda il suo debutto in A nel febbraio del 1961, ancora minorenne?

    «Certo, a Udine. Non andò bene, giocavo all'ala destra al posto di Alberto Orlando indisponibile, ma io ero più bravo a giocare in mezzo».

     

    Il suo maestro in quella Roma?

    «Mi ritrovai nello spogliatoio con i miei idoli, ce li avevo tutti attaccati al muro in casa. Ma il maestro fu Juan Alberto Schiaffino, l'italo-uruguaiano.

    Mi disse: guarda sempre negli occhi gli avversari che hai davanti e capirai in anticipo cosa stanno per fare. C'aveva ragione eh, avrò recuperato diecimila palloni con questo metodo».

     

    La Roma degli anni Sessanta aveva problemi di cassa. È vero che l'allenatore Lorenzo vi portò tutti al teatro Sistina per organizzare una colletta?

    «Verissimo, servivano a pagare gli stipendi. Raccogliemmo circa 800 mila lire, che non bastavano. Non fu una cosa molto simpatica. Decidemmo di devolverli agli alluvionati del Vajont».

     

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    Come fu lasciare Roma?

    «Mi scappò la lacrimuccia, ero mammone, e dal 1961 ero fidanzato con la donna che è tuttora mia moglie. Il giorno stesso della cessione un messo della Roma andò a casa mia a riprendersi l'abito da trasferta, giacca e pantaloni. Ci rimasi malissimo».

    Nel 1969 vinse il secondo e tuttora ultimo scudetto della Viola.

    «Era la Fiorentina yé-yé, Pesaola allenatore. Conquistammo la certezza matematica dello scudetto vincendo a Torino con la Juve, non so se rendo l'idea».

    L'anno prima lei era già diventato campione d'Europa con la Nazionale.

    «Fu la prova che uno stellone mi accompagnava. La finale con la Jugoslavia si era chiusa in pareggio e non avevo giocato. Fu ripetuta la partita, il ct Ferruccio Valcareggi mi buttò dentro e vinsi da titolare».

     

    Anche nel 1970 ai Mondiali del Messico, mentre Sandro Mazzola e Gianni Rivera erano costretti alla famigerata staffetta, De Sisti era titolare fisso. Lei con chi stava tra i due?

    «Erano fenomenali entrambi. Ricordo che un giorno, durante un allenamento in Messico, si presentò al campo Gianni Brera. Taccuino in mano, andava da tutti i calciatori e chiedeva: stai con Mazzola o con Rivera? Poi arrivò davanti a me e disse: a te non lo chiedo, tanto lo so già che sei amichetto di Mazzola. Era vero, avevamo fatto le Nazionali giovanili insieme».

    Italia-Germania 4-3, la partita del secolo in semifinale. Poi il Brasile di Pelé vi asfaltò in finale.

    «In quel Brasile c'erano almeno cinque fuoriclasse, era imbattibile».

     

    Alla Fiorentina diventa un idolo dei tifosi.

    «A Firenze ero un re, ma l'ultimo anno, nel 1974, fu tormentato. Mi ero infortunato e non avevo un buon rapporto con l'allenatore Gigi Radice. Un giorno feci una cosa che non si fa. Gli dissi: io in panchina non ci vado, è già tanto se ci va lei».

    Si racconta che con Radice arrivaste quasi alle mani.

    «Sì, mancò poco, successe prima di una partita a Foggia. Era da poco nata la mia seconda figlia e io avevo chiesto a Radice di non farmi partire se non aveva intenzione di farmi giocare. Lui mi fa: parti, perché non ho deciso. Poi, la sera prima del match, ricordo che stavo vedendo un incontro di Nino Benvenuti, mi chiama e mi fa: non posso farti giocare. Scoppiò un parapiglia. Andai dal presidente Ugolini e chiesi di essere ceduto».

    antognoni e socrates antognoni e socrates

     

    E tornò a Roma.

    «Per scelta di cuore. Mazzola voleva portarmi all'Inter, mi avevano offerto aumento di ingaggio, villa e Mercedes. A Roma, però, c'era la mia vita. E poi mi voleva Nils Liedholm».

     

    Il Barone.

    «Che uomo straordinario. Non si incazzava mai, il famoso self control, ma quando succedeva era una furia. Un giorno prese un giocatore e lo sollevò letteralmente in aria prendendolo per la maglia».

     

    Che aveva fatto?

    «Prima di una amichevole con la Samp Liedholm disse una cosa del tipo: facciamo attenzione a tutti, anche a Spadetto. Un calciatore borbottò: seee, mo' conta pure Spadetto. Spadetto segnò. Tornati negli spogliatoi il Barone fece il finimondo».

     

    Poi nel 1979 il ritiro dal calcio giocato.

    «Non ce la facevo più, i ragazzini correvano troppo più di me».

    Sul calcio degli anni Settanta c'è l'ombra di un doping forsennato e pericoloso.

    «Brutte abitudini ce ne sono sempre state e temo ci saranno. Di Micoren ne girava tanto, e anche ricostituenti. Però una cosa deve essere chiara: potevi rifiutarti e molti, me compreso, non li prendevano. Della Fiorentina degli anni Settanta si è parlato come fosse un ospedale da campo, non era così».

     

    Sapeva già che avrebbe fatto l'allenatore?

    «Pensavo di no per tre motivi: ero stanco dei ritiri, non volevo più viaggiare in aereo, non sopportavo che chiunque ti potesse insultare. In Italia semo tutti allenatori».

     

    Poi però nel gennaio del 1981 la chiama la Fiorentina.

    «Come potevo dire di no? Presi la squadra a metà anno e la riportai su. L'anno dopo sfiorammo l'impresa».

     

    Scudetto perso all'ultima giornata con la Juve.

    «Mi avevano fatto notare che la Fiorentina aveva vinto uno scudetto nel 1956 e uno nel 1969. Era il 1982, pareva l'allineamento degli astri: uno scudetto ogni 13 anni. Arrivammo all'ultima giornata a pari punti. La Juve sconfisse su rigore il Catanzaro, dopo che sullo 0-0 Brio aveva fatto un colossale fallo in area su Borghi. Noi, a Cagliari, non giocammo bene ma annullarono un gol regolarissimo a Ciccio Graziani e finì 0-0. Fummo derubati. Infatti a Firenze nacque lo slogan famoso ancora oggi: meglio secondi che ladri. Se avessi vinto quello scudetto, sarei ancora al posto di Nardella».

     

    radice radice

    Quello fu anche l'anno del drammatico infortunio alla testa di Giancarlo Antognoni, che rischiò di morire in campo.

    «Dopo lo scontro con Martina, portiere del Genoa, non ricordo chi dei miei giocatori venne da me in panchina e disse: Antognoni è morto».

    Nel 1984 la società le compra il brasiliano Socrates, il tacco di Dio. Puntavate allo scudetto, invece fu un disastro.

    «Lo spogliatoio era spaccato e Socrates non aveva tanta voglia, fumava pure sul pullman verso lo stadio. Un giorno Eraldo Pecci lo afferrò per la barba mentre era steso sul lettino a fare massaggi: te sei preso un miliardo e non voi fatica'?».

     

    Che uomo era Socrates?

    «Un contestatore nato. Ricordo che eravamo in ritiro a Pinzolo in Trentino e dovevamo giocare in amichevole a Novara. Lui non si capacitava e si mise vicino a me sul pullman per farmi vedere sulla cartina quanta strada dovevamo fare. Due ore a lamentarsi. Quando so' sceso gli ho detto: a' Socrate, me le hai fatte quadrate».

     

    Quell'anno fu lei a rischiare di morire.

    «Successe all'inizio della stagione, sub-ascesso dentale, operazione al cervello, avrei dovuto fermarmi sei mesi. Andavo in panchina con gli psicofarmaci. Il presidente Pontello mi disse: ti affianco Valcareggi, ma io non me la sentivo, in squadra ci deve essere un capo solo e lasciai».

     

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    Le manca il calcio?

    «Sarei bugiardo se dicessi di no, ma oggi la mia vita è fare il nonno dei miei sei nipoti. A loro dico sempre: se ti comporti bene, tutto torna indietro».

     

    Desiderio per gli 80 anni?

    «Rimettermi dal mal di schiena e stare tra gli affetti. Sono stato fortunato. Da ragazzo di borgata a commendatore della Repubblica per meriti, sempre rispettando le regole. Nella vita contano tre cose: il sudore, la fortuna e la consapevolezza dei propri limiti. Io sono andato forte su tutte e tre».

     

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