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    DIECI ANNI FA LA MORTE DI YARA GAMBIRASIO - NETFLIX LA RICORDA CON IL FILM DI MARCO TULLIO GIORDANA: “FU UN’INDAGINE IRRIPETIBILE ANCHE PER I COSTI, MA GIUSTIFICATA DALL'INTERESSE DELL'OPINIONE PUBBLICA CHE FU CAVALCATO POLITICAMENTE. QUANDO NON SI SAPEVA CHI FOSSE SI SCATENÒ LA CACCIA ALLO STRANIERO - INCONTRO I PROTAGONISTI DELLA VICENDA SENZA DOVER CAMBIARE MARCIAPIEDE PER LA VERGOGNA. IO RACCONTO QUELLO CHE È AGLI ATTI, HO LETTO TUTTE LE CARTE, NON GIUDICO”


     
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    Valerio Cappelli per il “Corriere della Sera”

     

    marco tullio giordana marco tullio giordana

    Yara è il film più atteso. Prodotto da Pietro Valsecchi, si vedrà su Netflix. Il regista è Marco Tullio Giordana, che ne parla per la prima volta.

     

    Il film è la ricostruzione dell' omicidio?

    «Più che la ricostruzione, è l' indagine che ha portato a trovare prima il profilo genetico dell' assassino, chiamato Ignoto 1, e poi l' inchiesta a tappeto con l' individuazione di Massimo Bossetti».

     

    Una procedura scientifica irripetibile...

    «Irripetibile anche per i costi, ma giustificata dall' interesse dell' opinione pubblica, interesse che fu cavalcato politicamente. Quando non si sapeva chi fosse si scatenò la caccia allo straniero».

     

    Lei cosa doveva evitare?

    «Il voyeurismo, implicito nei casi giudiziari, e il sensazionalismo per appagare questa specie di rito».

     

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    Che approccio ha avuto?

    «Incontro i protagonisti della vicenda senza dover cambiare marciapiede per la vergogna. Io racconto quello che è agli atti, ho letto tutte le carte, non giudico».

     

    I familiari di Yara...

    «Non li ho visti, non voglio star lì a rievocare un dolore e una sofferenza che non finiscono mai. È la ricostruzione di un edificio tale e quale, è un falso fedele. I genitori di Yara sono Sandra Toffolatti e Mario Pirrello. Alessio Boni e Thomas Trabacchi sono un colonnello e un maresciallo dei carabinieri di finzione che riassumono tanti ruoli».

     

    Perché è un caso unico?

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    «Trovarla tre mesi dopo fece toccare con mano l'orrore del delitto. Era agonizzante, morì di freddo. Una ragazza che esce dal centro sportivo, a 700 metri da casa, fa pensare che i figli non puoi proteggerli, sono così a rischio in un brevissimo lasso di tempo».

     

    Come ha protetto Chiara Bono, che la impersona?

    «Mi sono preoccupato che non fosse scossa, sono ruoli che spaventano. Ha talento, solarità, innocenza, voglia di vivere... Sono le caratteristiche che aveva Yara».

     

    La Pm Letizia Ruggeri?

    «Di Isabella Ragonese apprezzo che coraggiosamente non abbia voluto fare la simpatica. Un personaggio contropelo, all'inizio sola contro tutti. Fa di testa sua, brusca, impaziente, va in giro in moto, si allena alla boxe. All'epoca sua figlia aveva 8 anni, era più piccola di Yara. Il film è l'ossessione del pm che vuole acciuffare il colpevole».

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    E Bossetti, l'«orco»?

    «L'orco è irrappresentabile come tale, a meno di non volerne fare una favola. Siccome solo Dio sa cos' è successo veramente, ho chiesto all' attore, Roberto Zibetti, ambiguità».

     

    Avete girato nei luoghi reali della vicenda?

    «Non era possibile quando si è aperto il set si minacciava il ritorno della pandemia. Abbiamo girato a Sud di Roma, Fiano Romano e Monterotondo, dove tra l'altro abbiamo ritrovato un' architettura simile a quella della Bergamasca».

     

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    I crimini possono raccontare un paese, seguono l'evoluzione di una società?

    «Non ci ho mai pensato, ma d'istinto credo di sì. Oggi siamo ai delitti contro la proprietà morale, penso ai femminicidi, parola che non mi piace. Nel caso di Yara, l'unica spiegazione della ferocia è il mancato possesso. Non ci fu violenza. È un delitto di rabbia, per questo fu abbandonata in un campo, senza nemmeno dare il colpo di grazia».

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