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    DIECI ANNI SENZA COSSIGA / 2 - LA FIGLIA ANNA MARIA: “ALDO MORO? MIO PADRE DI NOTTE DICEVA: ‘SONO STATO IO A UCCIDERLO’. QUANDO SCOPPIÒ LA GUERRA NEL GOLFO MI MANDÒ A PRENDERE NEGLI USA: LA CHIAMÒ L'"OPERAZIONE BIANCANEVE" - QUANDO MI INTERESSAI ALLA SINISTRA MI CHIAMAVA "BOLSCEVICA" - DA CATTOLICO FERVENTE, SU ALCUNE COSE ERA RIGIDO E SEVERO: IO NON POTEVO ANDARE IN DISCOTECA, MENTRE MIO FRATELLO SÌ - QUANDO INIZIÒ A “PICCONARE” MI DISSE: ‘CERCO DI DIVERTIRMI E DICO TUTTE LE COSE CHE PENSO’. IL DIALOGO CON I TERRORISTI FU…”


     
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    Marzio Breda per www.corriere.it

     

    ANNA MARIA COSSIGA ANNA MARIA COSSIGA

    Oggi ricorrono i dieci anni della morte di Francesco Cossiga. Per ricordare il presidente emerito, ecco un’intervista a sua figlia Anna Maria.

     

    Signora Cossiga, poco prima di morire suo padre confessò al «Corriere» che se avesse potuto tornare indietro non avrebbe più usato il piccone, perché quella profezia della catastrofe fu un’ingenuità: «Il potere non vuole rigenerarsi». Era davvero pentito?

    «Non ne sono convinta. Infatti, anche dopo esser uscito dal Quirinale ha continuato a lanciare presagi alla sua maniera mordace. Quando gli contestavo i toni troppo veementi, mi smontava con un sorriso sornione e il giorno dopo ricominciava. Insomma: escludo passi indietro, nella sua critica alla partitocrazia. Quell’intervista con il Corriere era un atto d’orgoglio, semmai. Un modo per sollecitare un’analisi finalmente senza pregiudizi della sua “scossa” al sistema. In troppi non avevano voluto capirne il significato, al di là delle picconate».

    ANNA MARIA E FRANCESCO COSSIGA ANNA MARIA E FRANCESCO COSSIGA

     

    Allude allo snobbato messaggio alle Camere?

    «Certo. Era un testo importante, più di 80 pagine nelle quali proponeva una riforma di sistema, per offrire una chance di sopravvivenza a una Repubblica già malata. Lo considerarono un progetto ad alto rischio democratico, ignorando che nella stesura babbo aveva coinvolto Mino Martinazzoli e Giuliano Amato, non proprio sospettabili di “frenesie autoritarie”, come si disse di lui. Mio padre ci teneva molto, perciò si sentì tradito. Specie dalla Dc, cui aveva dedicato tutto sé stesso e che da quel momento abbandonò».

     

    ANNA MARIA COSSIGA ANNA MARIA COSSIGA

    Lo deluse pure la richiesta d’impeachment del Pci, che era il partito di Berlinguer, vostro cugino. Che rapporti avevate?

    «Non i rapporti che di solito si hanno tra parenti, ma babbo parlava sempre di Enrico con rispetto e stima, ricambiati dal cugino pur stando loro in campi politici diversi. Io ho conosciuto Bianca più tardi ed è stata molto affettuosa quando mio padre è mancato».

     

    Che tipo di padre è stato, Cossiga?

    ANNA MARIA E FRANCESCO COSSIGA ANNA MARIA E FRANCESCO COSSIGA

    «Apparteneva alla generazione che aveva qualche impaccio con i bambini, quindi pure con me e mio fratello Giuseppe quando eravamo piccoli. Un rapporto destinato comunque a evolversi. Presto volle coinvolgerci in discussioni con lui — su storia e religione, ad esempio, meno invece sulla politica — affinché sviluppassimo la capacità critica. Da cattolico fervente, su alcune cose era rigido e severo, distinguendo tra maschi e femmine. Per capirci: io non potevo andare in discoteca, mentre mio fratello sì, anche se era più giovane di me».

     

    Era presente, in famiglia?

    «Dipendeva dagli incarichi che ricopriva. Ricordo dei pranzi bellissimi, che si trasformavano in dibattiti infiniti. Io, che sono sempre stata piuttosto apolitica, in una certa fase sviluppai un interesse per la sinistra. E lui, pur senza censurarmi o pretendere d’impormi le sue idee, prese a stuzzicarmi chiamandomi “bolscevica”».

    ANNA MARIA COSSIGA ANNA MARIA COSSIGA

     

    Lei non lo seguì mai nei viaggi da presidente.

    «Stavo all’estero da anni, in Inghilterra e in America, per studio e lavoro. Perciò era lui a venirmi a trovare, in particolare a Londra, da dove spesso ci spostavamo in Irlanda. Amava l’atmosfera dei piccoli villaggi sul mare e insisteva spesso per andare a pranzo in un ristorante appena fuori Dublino, nel quale la gente si esibiva in canti e balli tradizionali. Un episodio curioso accadde a New York, dove lavoravo all’Onu...».

     

    In che senso curioso?

    «Una mattina mi telefonò per avvertirmi che stava per scoppiare quella che sarebbe stata la prima Guerra del Golfo. “Sei sicura di voler restare lì?”. Non lo ero, perché si respirava un clima pesante. Quando glielo spiegai, mandò da Roma una scorta a prendermi. Tempo dopo scoprii che aveva battezzato quel mio viaggio di rientro “Operazione Biancaneve”, perché — ecco come la presentò agli agenti — la bimba torna a casa e bisogna proteggerla. Rispecchiava un po’ la sua mania di giocare con i servizi segreti».

    gianfranco funari e francesco cossiga gianfranco funari e francesco cossiga

     

    Cosa provò, negli anni di piombo, vedendo sui muri delle città il suo cognome storpiato con la K di amerikano, nel senso di golpista, e la doppia esse runica, alla nazista?

    «Avevo 16 anni e in famiglia cercavamo di scherzarci su e sdrammatizzare, con la sventatezza dell’età giovanile. Non era facile cancellare il problema: andavamo a scuola scortati ogni giorno con una macchina diversa e seguendo itinerari mai uguali. Tutto cambiò con il delitto Moro, che mi fece preoccupare, per babbo, perché aveva un enorme affetto per Moro, che era stato il suo maestro politico».

     

    Infatti la sua storia resta associata a quel dramma e ad altri misteri italiani. Che cosa le raccontò di questo?

    «Per un lungo periodo non ne ha parlato. Lo capivo: si fa fatica a confidarsi con i figli quando sono ragazzi. Ma il suo dolore era visibilmente somatizzato: i capelli gli diventarono bianchi, la pelle macchiata dalla vitiligine. Si sentiva responsabile di quella morte. E sì, capitava che di notte si svegliasse dicendo: “L’ho ucciso io”».

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    Colpisce ancora oggi il suo dialogo con i terroristi.

    «Li aveva combattuti, da ministro degli Interni. Passata la stagione del sangue, dopo che lo Stato aveva vinto, voleva comprenderne le ragioni e avviare la pacificazione del Paese».

     

    Negli ultimi tempi trasmetteva un’immagine di uomo tormentato, solo e sofferente. Come lo aiutavate a tenere sotto controllo la sua fragilità da ciclotimico?

    «Chi gli aveva dato del matto, quand’era al Quirinale, si sarà magari sentito confortato nella propria ipocrisia. Per noi non era una tragedia di cui vergognarci: lo consideravamo un disturbo al pari di tanti altri. E sapevamo che c’erano momenti nei quali bisognava stargli più vicini. Lui stesso non nascondeva nulla della malattia. Ha dimenticato che coniò la metafora dell’Omino nero e dell’Omino bianco?».

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    Già, il primo ipercritico, pessimista e distruttore. Il secondo impegnato a piacere, divertirsi e sedurre.

    «Sapeva di avere una personalità ambivalente e ne aveva fatto una tecnica di combattimento politico. Gli ho regalato un mio disegno con questo suo doppio ritratto».

     

    Che cosa pensò quando, dopo 5 anni da presidente-notaio, cominciò a picconare? Vi aveva anticipato la svolta?

    «No. Tanto è vero che stupì anche noi. Gli telefonai da Londra e gli domandai: “Ba’ (diminutivo di babbo, alla sarda, ndr), ma che succede?”. “Nulla di preoccupante, Anna. Cerco di divertirmi e dico tutte le cose che penso, in libertà”. Considerato quel che è accaduto dopo, non so quanto si sia divertito, ma ha almeno saputo guardare lontano. Come la profetessa Cassandra, condannata a non esser mai creduta e sulla quale scrivemmo un libro a quattro mani».

     

     

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