Francesca Sforza per "La Stampa"
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Il problema non sono le città, come la grande fuga verso le case al mare o in campagna lasciava pensare nelle prime fasi della pandemia. Le città sono la soluzione, ci dice lo studio internazionale «Which future for the Cities after Covid 19» della Fondazione Eni Enrico Mattei, realizzato grazie al contributo di 25 esperti provenienti da 20 città: da Barcellona a Bangalore, da Milano a Mosca e Marrakech. Ma sono destinate a cambiare, come del resto avvenuto più volte nel corso della storia dopo che grandi disgrazie vi si sono abbattute sopra.
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È successo ad Atene, colpita dalla peste nel 430, è successo a Londra dopo l'incendio del 1666, nelle grandi città europee dopo la spagnola, e anche in Africa dopo la comparsa di Ebola. Quella che si vede oggi all'orizzonte è «la città aumentata», molto diversa da quella che conosciamo, ma che si è già annunciata in questi mesi di chiusura forzata, dove alcuni spazi non esisteranno più, ma altri sorgeranno al loro posto. Tra gli aspetti che più colpiscono nella ricerca ci sono i tempi: non stiamo parlando del 2050, e neanche della gestione dei prossimi tre mesi.
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La città aumentata è una possibilità praticabile già fra due o tre anni, a seconda di quanto efficace e mirata sarà l'azione del decisore politico. «Non è vero che il mondo resterà come prima - dice il professor Paolo Perulli, dell'Università del Piemonte Orientale e tra gli ideatori dello studio - i cambiamenti saranno forti, e sotto il segno di una prepotente controtendenza».
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La globalizzazione come la conosciamo - grandi marchi, filiere e distributori - è destinata a finire, e al suo posto cresceranno localizzazione e internalizzazione dei processi: «Si va verso trasporti e logistica più localizzati, si imporranno formule di coworking e cohousing, il mondo urbano tenderà a rigenerarsi attraverso l'abbreviarsi delle catene produttive e distributive».
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Sarà un mondo più aperto: «Va messa in conto una crescita enorme delle attività immateriali - spiega ancora Perulli - Il telelavoro si moltiplicherà in una scala da uno a dieci, nell'area urbana di Parigi, ad esempio, si passerà da una percentuale del 4 per cento a una del 40». Le leve su cui agire sono dunque evidenti: infrastrutture, banda larga, alfabetizzazione informatica.
A seconda di come l'azione sarà indirizzata, gli squilibri e i rischi legati all'aumento delle diseguaglianze possono essere ridotti oppure farsi incolmabili. Le città europee sono avvantaggiate, e per loro il futuro ipotizzato dagli studiosi è quello di un modello «città a quindici minuti», con la scuola, i negozi, i servizi, tutti raggiungibili in poco tempo.
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Un modello che il New York Times aveva individuato già nel 2013 quando parlò per la prima volta di «Hypsturbia», sintesi di Hypster e Suburbia, fenomeno praticato da nuclei giovani che sceglievano di lasciare Brooklyn per raggiungere realtà più contenute, utilizzando il lavoro a distanza. Nella città aumentata può essere la realtà dei grandi quartieri, sempre più autonomi e allo stesso tempo più collegati con l'esterno.
«Per questo bisogna immaginare anche grandi riconversioni - dice Marco Cremaschi, docente del Centre d'études européennes et de politique comparée, a Sciences Po - A Parigi, ad esempio, nel quartiere della Défense, è già in atto la trasformazione dei parcheggi in ristoranti o spazi pubblici che prevedano un grande distanziamento».
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In Italia possiamo immaginare cinema riconvertiti in parcheggi, marciapiedi trasformati in piste ciclabili, parchi adibiti a spazi scolastici. «La partita è tutta da giocare, e sarà diversa in ogni città». Cosa ne sarà dei più deboli? Se si pensa al traffico di Nuova Delhi o di San Paolo, è difficile immaginare che il trasporto pubblico possa essere sostituito da monopattini. Più facile visualizzare enormi risacche di povertà ammassate ai margini di smart cities sempre più automatizzate.
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«La sfida è questa però - dice ancora Cremaschi - cercare di estendere il più possibile l'accesso gratuito alle opportunità». La strada è già tracciata: molti aspetti della città aumentata sono stati sperimentati, si tratta di radicalizzarli e renderli efficaci per il maggior numero di persone. Più che altro perché non ci sono alternative, che non siano quelle di minoranze ricche che si difendono aumentando i controlli e limitando le libertà degli altri, come il Covid ha dimostrato.
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