Andrea Pistore per https://corrieredelveneto.corriere.it/
dino baggio
È stato uno degli emblemi del calcio italiano a cavallo tra gli anni ’90 e il nuovo millennio. Un cognome importante: Baggio, tanto che infinite volte ci si è domandati se fosse un parente, magari fratello o un cugino alla lontana, di Roberto. Dino Baggio, padovano classe 1971, cinquant’anni appena compiuti, detiene ancora il primato di gol realizzati nelle finali di Coppa Uefa, l’attuale Europa League (5, tra andata e ritorno). Per scelta è «uscito» da un mondo del calcio in cui non si ritrova più come racconta senza giri di parole.
Intanto cosa fa adesso Dino Baggio?
«Fino a un paio di anni fa ero a Montebelluna dove allenavo i giovani e dove giocavano anche i miei figli che poi si sono spostati a Monza. Io ho mollato per stargli vicino. Adesso loro sono a Varese, continuo a seguirli e sono più in autostrada che a casa».
Quindi ha chiuso definitivamente con il calcio?
«Ho detto basta perché è diventato tutto complicato. C’è molta differenza rispetto a quando giocavo. Adesso ci sono troppi giri strani. Quando vedi i ragazzi che non scendono in campo anche se lo meritano ti tiri fuori e dici basta. In tanti posti sei obbligato a fare determinate scelte e allora non ne vale più la pena».
DINO BAGGIO 6
Davvero non segue proprio più niente del pallone?
«Guardo qualche partita in televisione. Sono venuti a mancare i settori giovanili e quei ragazzini che facevi crescere. Ormai è più facile prendere uno straniero e pagarlo poco. Un peccato. Ogni tanto vado a vedere la serie la D dove è tutto più genuino».
I suoi figli però giocano a calcio…
«Sin da piccoli non ho messo veti. Se vorranno continuare bene, altrimenti cambieranno. L’importante è che pratichino sport e che imparino lo spirito di sacrificio. Abbiamo visto alle Olimpiadi che non esiste solo il pallone».
A un certo punto della sua vita ha fatto anche teatro, sta coltivando ancora quella passione?
«No, era stata solo una parentesi per beneficenza in paese. Ho fatto tre apparizioni ma non mi piaceva. Il mio vero hobby è correre in pista con le macchine, ogni tanto vado a Misano e guido una Gt3. Mi piacerebbe disputare un campionato di categoria».
DINO BAGGIo 4
Torniamo indietro al calcio giocato, è rimasto legato a qualche compagno?
«Con Roberto (Baggio, ndr). Lo sento spesso, quando capita ci vediamo, lui è un vero amico. Poi ho buoni rapporti con Benarrivo e con Orlandini».
Ci tolga una curiosità, quante volte le hanno chiesto se lei e Roberto siete parenti?
«In tanti ancora mi chiedono se siamo fratelli. Non mi è mai pesato avere un cognome così importante. Anzi. Roby è stato uno dei forti giocatori al mondo, io ero solo contento che mi abbinassero a lui».
Parlando di allenatori, di Nevio Scala che ci dice?
«È stato uno dei migliori. Mi ha voluto a tutti i costi a Parma. In spogliatoio noi due parlavamo più veneto che italiano, non sempre gli altri ci capivano. Quello è stato il Parma dei miracoli».
Quale la chiave dei successi?
DINO E ROBERTO BAGGIO
«Avevamo uno squadrone formato tutto da nazionali che ha trovato l’apice con Malesani in panchina. Sono rimasto sette anni coi crociati. Zola era un fenomeno, poi c’era Tino Asprilla, un tipo scherzoso e un uomo spogliatoio. Portava allegria e stemperava la tensione con i suoi balletti e lo stereo sparato a palla».
Mister Malesani com’era in quegli anni?
«Un innovatore. Mi piaceva il suo metodo. Giocavamo in maniera rivoluzionaria e sempre all’attacco. Ci si divertiva. Lui in carriera avrebbe dovuto essere più diplomatico, ha avuto troppi alti e bassi e ha pagato la poca linearità nei risultati».
Parma nel cuore insomma…
«Tutt’ora ci torno quando posso e vado a trovare gli amici. Poi amo anche Torino, ma sponda granata, dove ho iniziato la mia carriera nelle giovanili».
E Carlo Ancelotti?
«Anche lui un ottimo tecnico. È un figlio di Sacchi, ha fatto il calciatore ed è sempre stato capace di capire i giocatori anche solo guardandoli. Era avvantaggiato da questo aspetto. Tutti gli abbiamo sempre voluto bene. Dove è andato ha vinto».
DINO BAGGIO 6
Un altro mister che l’ha allenata è stato Trapattoni, con lui avete vinto una Coppa Uefa alla Juventus, aneddoti?
«Un maestro del calcio. Avevo solo 21 anni ma mi ha sempre fatto giocare. Mi diceva “sei il mio Maldini”. Lui aveva una grande dote: a fine allenamento i giocatori dai 28 anni in su venivano mandati sotto la doccia mentre i giovani restavano mezz’ora in campo a fare tecnica tutti i giorni».
Nell’ultima parte della sua carriera ha provato anche l’esperienza inglese col Blackburn, come mai è finito in Inghilterra?
«Dovevo andarci già 10 anni prima con il Middlesbrough e poi al Chelsea perché mi voleva Gianluca Vialli ma poi non abbiamo trovato l’accordo. Lì il calcio è bello, molto di più che in Italia e ho coronato anche questo sogno».
A proposito di Vialli e della sua malattia, che impressione ha avuto da fuori?
«Ha sempre combattuto da leone, com’è lui caratterialmente. Poi si è visto all’Europeo il carisma. Era l’uomo che serviva all’Italia, anche per quello che gli è successo. Un esempio per il gruppo azzurro. Sono sicuro che molti dei meriti per la vittoria Mancini li abbia spartiti proprio con Gianluca».
Per lei la Nazionale cosa ha significato?
«Ho fatto 60 presenze, segnando 7 gol. Ero nella selezione di Usa ’94, siamo arrivati in finale di Coppa del Mondo. Noi abbiamo fatto il massimo, poi il resto era una lotteria. Abbiamo perso ai rigori col Brasile e pazienza. Più di così non si poteva fare ma sono pur sempre un vice campione del mondo e pochi giocatori possono vantarsene. Da ragazzino avrei messo la firma per un risultato simile».
Chi è il giocatore in Italia che in questo momento la convince di più?
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«Federico Chiesa. È la copia sputata del padre Enrico, stesso modo di giocare. Mi piace anche Manuel Locatelli».
Lo stadio più bello dove ha giocato?
«Forse quello di New York. Futuristico per l’epoca. Se devo dirne uno in Europa scelgo il Santiago Bernabeu di Madrid».
Lei nel 2000 prese sei giornate di squalifica (oltre a una maxi multa da 200milioni) perché mimò all’arbitro Farina il gesto dei soldi. Pentito?
«No. Ce l’avevo col sistema non con l’arbitro ma anche facendo quel gesto plateale non è cambiato nulla. Dopo comunque si è visto cos’è successo con Calciopoli».
In questi giorni si è vaccinato ed è finito anche sui giornali locali, come mai ha voluto fare questo appello ai giovani perché si immunizzino?
«È l’unica strada per bloccare il virus e poi senza Green pass non puoi fare niente. Di restrizioni non se ne può più, la gente rischia di impazzire e non possiamo stare chiusi in casa un altro inverno. Speriamo che riaprano gli stadi con capienza al 100%, magari verso ottobre, perché il calcio senza tifosi non è calcio».