Domenico Quirico per “La Stampa”
DOMENICO QUIRICO
Non parto dal diritto, dai codici, dalle leggi nazionali e internazionali. Parto da un uomo, anzi dall'assassino. Il sergente dell'esercito della federazione russa Vadim Shishimarin condannato come criminale di guerra per aver ucciso un civile ucraino il 28 febbraio scorso. Condannato all'ergastolo da una corte civile di Kiev, tre giorni di udienze, lui reo confesso. È il primo, annunciano gli ucraini, di una lunga serie di processi esemplari a militari russi, che hanno già pronti e contro cui sostengono di avere prove inconfutabili dei delitti degli invasori.
Quindi parlo di un assassino, lo ha ammesso lui stesso. Per qualcosa che è più di un omicidio, «un crimine contro la pace, la sicurezza, l'umanità, e la giustizia internazionale» come recita la sentenza.
Vadim Shishimarin a processo a Kiev 2
Ho visto molti altri sguardi come quello del sergente Shishimarin ripreso nella gabbia degli imputati durante le udienze. Non so come definirlo. In esso vi era il tormento e la stanchezza di un animale braccato. Occhi pieni di intensa disperazione, occhi di un quadro sulla resurrezione di Lazzaro: questi mentre tutti intorno a lui in aula esultano e si congratulano per la giustizia fatta, li guarda con gli occhi di chi ha già visto il volto della Morte. In questo caso quella dell'uomo che ha ucciso.
In fondo le riflessioni che ne traggo non riguardano il fatto, che sono obbligato ad accettare nella sua feroce semplicità: una strada di una città sconvolta dalla invasione, un uomo anziano con una bicicletta e un telefono in mano, un altro uomo, in divisa, che spara e quell'uomo muore. È un quadro di Goya, il bubbone gonfio degli orrori della guerra.
Vadim Shishimarin
Ci sono i giusdicenti in toga, un difensore, delle prove, una confessione, una sentenza. Che si chiede di più per «ius dire», perché almanaccare? Tutto a posto, dunque. Tutto regolato. Ma questo processo si svolge all'interno di una guerra feroce e crudele. Ci dobbiamo accontentare? Ci possiamo accontentare per poter esclamare: bene, la giustizia ha trionfato?
La riflessione affonda nella definizione del carattere assoluto, direi sacro, della Giustizia, il suo dover essere senza pieghe e sfumature, perché altrimenti scivola in qualcosa che non le assomiglia e che la nega, la vendetta. O la dimostrazione strumentale della fondatezza della propria causa.
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È proprio il fatto che il male con la M maiuscola, quasi mistico nella sua inesplicabilità, e che conosco bene, non mi mostri nel sergente assassino il suo grugno ributtante, ma soltanto la solitudine assoluta di un uomo che non ha nemmeno il conforto di aver peccato per una buona causa, che mi spinge alla domanda: è legittimo processare i nemici colpevoli di crimini di guerra mentre la guerra è in corso?
Non ci sono, automaticamente, tecnicamente, nel farlo elementi che indeboliscono quelle sentenze sacrosante? E non sul piano della opportunità politica che è parola che non mi interessa, ma proprio sul piano assoluto della giustizia. Questo assoluto è possibile mentre giudici e imputati stanno combattendo?
La vedova di Shelypov e Vadim Shishimarin a processo a Kiev
Si può dire che gli ucraini nella giusta foga di dimostrare la ferocia dei russi, forse hanno commesso un errore, esponendo i loro eroi, i soldati che hanno difeso l'acciaieria di Mariupol, a un ancor più pericoloso destino, essere cioè processati a loro volta per ritorsione e contro propaganda.
Ma questo è secondario, calcolo politico, soppesare vantaggi e svantaggi. L'Ucraina ha certo il diritto giurisdizionale di processare gli aggressori colpevoli di crimini di guerra commessi nel suo territorio. La possibilità di affidare i processi a una corte imparziale appare tecnicamente impervia poiché i due Paesi in guerra non hanno mai firmato lo statuto di Roma che ha istituito la corte penale internazionale.
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Ma un processo che si svolge in un tribunale ucraino mentre la guerra infuria può essere un processo regolare? Ad esempio. Chi è accusato di un reato così grave come l'omicidio di un civile ha la possibilità di citare liberamente testimoni a sua difesa? Un soldato russo potrebbe sostenere che ha sparato perché era sotto la minaccia diretta, in caso di disobbedienza, di essere giustiziato o punito dei suoi commilitoni.
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Per provarlo, anche se questo non cancella la colpa di aver ucciso, dovrebbe poter citare come testi quelli che erano con lui e che lo avrebbero spinto a sparare. Ma questo in un tribunale che giudica mentre la guerra è in corso non è evidentemente possibile. I testimoni stanno dall'altra parte del fronte e anche se per assurdo si presentassero in aula verrebbero immediatamente arrestati come complici e potenziali assassini. C'è poi il diritto intoccabile alla difesa. Perfino ai criminali nazisti a Norimberga venne riconosciuto la facoltà di nominare avvocati scelti da loro. Fu possibile perché la guerra era finita.
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Anche Adolf Eichmann, il lugubre impiegato dell'Olocausto, nel processo in Israele poté scegliere un avvocato tedesco. Un legale ucraino, assegnato d'ufficio, è compatibile con un concetto di Giustizia? Avvocato non troppo garrulo, la cui strategia di difesa, tra l'altro, si è limitata alla constatazione del carattere orrendo del delitto commesso dal suo assistito. Esiste poi il principio generale della impossibilità di celebrare un processo davvero equo in un clima ostile. Il fatto che il processo, e quelli futuri, si svolgano in un regime di legge marziale non è certo un rimedio alla fretta.
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La legge marziale vale nei confronti dei soldati ucraini per punire eventuali reati di diserzione o di favoreggiamento del nemico. Non per i soldati dell'esercito nemico che sono tutelati dalla convenzione di Ginevra. A costo di sembrare ingenui verrebbe da aggiungere che lo scopo dell'ordigno penale non è essere festa catartica o costruzione di una memoria collettiva: è la obbligatoria punizione della colpa e il porre le basi di una possibile ricomposizione della convivenza che il delitto ha lacerato. Processare il nemico in tempo di guerra raggiunge questo scopo?
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