Maria Sorbi per "il Giornale"
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Parla di canali Youtube, di rap e di giovani. Parla di sentimenti, di incoraggiamento, di squadra. E quando lo fa si illumina. Don Alberto Ravagnani, insegnante di religione al liceo scientifico Tosi e vicario alla parrocchia di San Michele a Busto Arsizio (Varese), con tutta la freschezza dei suoi 28 anni, si è prefissato una missione: svecchiare la Chiesa e contemporaneamente riempire i social di riflessioni che spesso mancano.
Ad esempio con Doncast, l'oratorio on line, e con una catechesi frizzante che dai video «stile Iene» arriva dritta al cuore dei giovani, provocandoli con riflessioni vicine al loro mondo e abbandonando (finalmente) quel linguaggio «da sermone» che non attacca più con un 17enne.
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E anche se un po' di fama la deve all'incontro-scontro virtuale con Fedez, a fermarlo non sarà certo la scelta del rapper, che l'ha recentemente bannato dai suoi contatti.
Ma cosa è successo con Fedez?
«Tra me e Fedez c'è stato un rapporto sempre e solo virtuale e poi si è interrotto: lui ha deciso di bloccarmi su Instagram. Mi è dispiaciuto, soprattutto a fronte di una storia di relazioni tutto sommato cordiali. Perché significa che pubblicamente non possiamo più avere un dialogo. Quindi ho voluto esprimere lo sgomento rispetto a questa sua decisione: sicuramente libera ma deve essere responsabile, cioè spiegata».
Come mai l'ha bloccata?
«Dice che gli mandavo troppi messaggi e lo asciugavo. Ma l'ultimo messaggio che gli ho scritto risaliva a un mese prima dal blocco. La reale motivazione non l'ha mai detta. Sarebbe interessante aprire un canale pubblico di comunicazione, che non vuol dire che ci dobbiamo sentire tutti i giorni. Nel confronto tra noi due, nonostante la diversità di visioni, sono venuti fuori tanti spunti di riflessione.
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I nostri due mondi sono venuti a contatto ed è bello che i follower di Fedez abbiano potuto rivedere la propria visione di Chiesa mettendosi a confronto vivo con la voce di un esponente che può motivare scelte che magari, per principio, vengono escluse da altri ma che magari dopo le contestualizzazioni del caso possono essere accettate. Prima di criticare qualcuno o qualcosa, è necessario quantomeno conoscerlo, poi provare a comprenderlo».
Tra i suoi video su YouTube ce n'è uno molto bello in cui parla della povertà di linguaggio: se una persona non conosce le parole non riesce a esprimere la complessità dei sentimenti. Effetto collaterale dei social?
«Senza avere le parole, si semplifica un sentimento e si tagliano le gambe alle persone. Ad esempio: muovere una critica al ddl Zan o argomentare l'omosessualità problematizzando, non significa essere omofobi. La parola omofobia è una semplificazione che riduce la complessità della realtà e non porta da nessuna parte. È importante avere delle parole che invece descrivano adeguatamente la complessità della realtà ed è importante avere contesti in cui le parole possono essere scambiate per raccontare fino in fondo cosa sta capitando nel mondo».
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Quali sono le parole che mancano?
«Alcune parole vengono strumentalizzate e fraintese. La parola più fraintesa è la libertà. Si dice: la mia libertà finisce dove inizia la tua. Ma è falso. Noi non siamo delle isole, io non mi posso definire solo a partire da me e dalle mie scelte, inevitabilmente devo concepirmi a partire dagli altri. La mia libertà si incrocia con la tua. A volte le pesta i piedi, a volte diventa occasione per fare qualcosa insieme. Non è: faccio quello che voglio ma è tenere conto degli altri. Quella più autentica deve essere responsabile. Invece le battaglie per la libertà a volte sono prevaricazione».
Non a caso il suo libro, in uscita a metà giugno con Rizzoli, è intitolato «La tua vita e la mia». Di cosa si tratta? A chi è destinato?
«È la storia che avrei voluto leggere da ragazzo, è per i ragazzi ma è anche per gli adulti che vogliono entrare nel loro mondo. Parla di amicizia tra Federico - che va in oratorio e frequenta il liceo classico - e Riccardo - che arriva dalla periferia, da un percorso scolastico disastroso e da una famiglia problematica. I due ragazzi si scontrano e incontrano. Parlo di amici, amore, fede, responsabilità. Insomma, parlo delle cose che contano senza troppi fronzoli».
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Anche con i social riesce ad approfondire questi concetti?
«Si riesce per quello che i social possono permettere. Non esauriscono la comunicazione, hanno vantaggi e limiti. Il problema è di chi li usa. Se chi li usa se li fa bastare, rischia di perdere tante dimensioni della relazione umana che sono quelle che contano. Per usarli consapevolmente dobbiamo sapere dove iniziano e dove finiscono senza farli passare come unico canale per la nostra comunicazione».
Grazie ai social ha cercato di svecchiare alcuni principi cattolici molto alti ma difficili da comunicare ai giovani. Impresa riuscita?
«Qualcosa ho fatto ma il lavoro è ancora molto grande. Si tratta di ritradurre tutto quanto. La Chiesa deve tramandare il Messaggio del Vangelo nel corso dei secoli attraversando i cambiamenti della storia. Deve essere chiaro il contenuto da comunicare e i destinatario. Quindi il linguaggio deve essere adeguato».
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Cosa vuol dire raccontare Gesù oggi?
«Comunicare Gesù è semplice in realtà. Lui si è posto come un uomo e la sua umanità è stata il suo miglior mezzo di comunicazione: ha incontrato, ha parlato, ha toccato. L'umanità di Gesù parla al cuore quindi è comprensibile sempre. La sfida è far capire che questa sua umanità è divina. Nel corso dei secoli Gesù è stato reso più astratto, più divino e meno umano. Il problema degli uomini di oggi non è che sono solo poco cristiani ma sono poco aperti alla trascendenza, come se tutto si risolvesse qui».
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Eppure c'è tanta ricerca del trascendente, con la meditazione, la cura dell'anima, la moda new age.
«Il nostro cuore è fatto per il cielo ma tante volte viene appesantito e distratto da altre cose: denaro, fama. Il bisogno di trascendenza, anziché arrivare a compimento, si ferma a esperienze di meditazione, benessere interiore. Gesù è invece una proposta di salvezza, che va ben al di la del benessere».
Ma i ragazzi hanno voglia di ascoltare questa storia?
«Se questa storia è raccontata bene, sì. Soprattutto in un mondo in cui ci sono tante proposte, diverse della quali anche abbastanza convincenti ma quasi sempre incapaci di mostrarsi definitive, luminose, chiare. È difficile trovare oggi qualcosa per cui valga la pena dare la vita e dare un senso a tutti i propri sforzi, ai propri problemi. Questa storia ha la pretesa di poter dare un senso a tutto».
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La Chiesa cosa le ha detto di questa sua verve social?
«C'è chi mi ha criticato dicendo che sono la rovina della Chiesa e chi ha detto che ne sono la salvezza. Non sono né una cosa né l'altra. La mia diocesi mi supporta, tanti laici, tanti vescovi si sono esposti a favore di questa modalità. Io lancio la provocazione: il Vangelo può essere raccontato con il linguaggio di oggi, senza paura di comprometterci col mondo perché anche Gesù lo aveva fatto. Alcune correzioni mi sono state utili così come mi è servito l'incoraggiamento.
Diversi preti hanno iniziato a fare come me, diversi oratori si sono sbloccati. Un altro Don Alberto forse non c'è, ma ci sono grandi comunicatori: Don Fabio Rosini, don Luigi Maria Epicoco, don Marco Pozza. La differenza è che sono esponenti della generazione precedente, per cui sono diventati famosi grazie alla tv, non hanno un loro canale Youtube ma i loro fans caricano su Youtube le loro catechesi. Il mio procedimento è diverso. Tento di fare come gli altri Youtuber, creo i miei contenuti, con il linguaggio di oggi».
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E ha uno staff che la aiuta.
«Alcuni amici (Matteo, Davide, Chiara e Pietro) hanno dato vita a un team strutturato che mi supporta. In accordo con la Diocesi, collaboro con la Think soluzioni creative per il lato pr e le strategie social. È giusto che la Chiesa si renda conto che la comunicazione oggi è un fatto decisivo e servono competenze da mettere a servizio della nostra missione».
Cosa manca ai giovani?
«Oggi c'è una forte polarizzazione mondo giovanile attorno a due modi di vivere la vita: l'estremo individualismo e l'estrema generosità. Ci sono giovani che hanno deciso di vivere per sé, chiusi in casa, pensano a loro stessi, a palestra, aperitivo, all'immagine, fine. Altri vivono per gli altri, fanno del bene. Ma tutti sono accomunati dalla passione».
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Va accesa però.
«Questa fiamma c'è sempre. Nel momento in cui la forza vitale viene vissuta per se stessi rischia di esaurirsi. Se non viene vissuta al di fuori di sé, si spegne. Perché troviamo tanti giovani che non sanno cosa fare della loro vita e sono depressi? Perché pensano di trovare la felicità vivendo per se stessi. Se l'idolo diventa la propria immagine e qualcuno la mette in discussione, crolla tutto. Siamo in un'epoca narcisistica dove siamo costantemente alla ricerca della nostra identità al di fuori noi».
Che domande fanno i suoi alunni?
«Il problema è che a volte non sanno cosa chiedere, non hanno le parole per esprimere queste domande. Ti fan capire quello di cui hanno bisogno con originalità, con vestiti e gergo eccessivamente sgargianti. Fondamentalmente chiedono attenzione e affetto. Banalmente mi sono reso conto che fare l'appello alla mattina non è una perdita di tempo, come credono alcuni miei colleghi».
Cosa vuol dire fare l'appello?
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«Per tanti ragazzi è l'unico momento che hanno per dire che ci sono perché durante alcune giornate, in base alle dinamiche delle lezioni, capita che non dicano niente e non si espongano mai, nemmeno una parola. Con l'appello dici che esisti, che ci sei. È come dire che il prof è lì per te e tu sei lì per gli altri. Alessandro D'Avenia ha scritto un libro su questo ed è molto vero».
La solitudine contribuisce ad aumentare i problemi di droga?
«Sì, anche tra i più giovani. Oggi è un facilitatore sociale: mi drogo, mi disinibisco e riesco a vivere le mie relazioni senza filtri. I ragazzi sono fragili e insicuri, magari perché non hanno accanto a sé degli adulti solidi e la droga diventa la via per superare tutto questo».
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La proposta dell'oratorio è sufficiente o ha perso appeal?
«L'oratorio ha bisogno di rebranding. Alcune critiche sono oggettivamente vere: a volte è un luogo vecchio, rimasto indietro. Ma nel dna resta una proposta sempre valida. Il mondo propone la community, noi la comunità. I gruppi social sono troppo deboli e parziali, ci si riconosce attorno a una caratteristica in comune ma sono forme di appartenenza deboli per poter segnare la vita di una persona e dare un principio di identità solido. L'oratorio restituisce la dimensione comunitaria. Noi siamo fatti per gli altri, questo è innegabile. Non chiudiamoci. Condividere un problema in una comunità lo rende più gestibile».
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Un personaggio con cui ti piacerebbe mischiare linguaggi, contenuti e followers?
«Sceglierei qualcuno nel mondo della musica che è quello a cui i giovani si attaccando e danno credibilità. Penso a Tedua, rapper. Riesce a dare valore al mondo in cui si trova, Mi piacerebbe incontrarlo, si fa portatore di tante istanze di denuncia e cambiamento. Vorrei supportarlo».
Progetti dopo il libro?
«Riuscire a tenere assieme mondo parrocchia e mondo social. Partirà un grande tentativo di far essere presente la Chiesa sui social, rinnovando linguaggio e trovando figure che possano comunicare in modo efficace oggi».
Alla Papa Francesco?
«Lui sia per il suo stile di comunicazione sia per i contenuti del suo magistero è la mia ispirazione».